Trident Classic Farm

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LA FILOSOFIA DEL TRIDENT

di Fabrizio - Classic Farm Motorcycles (BS)

Nel restauro c’è chi si accontenta di un’estetica il più simile possibile all’originale, anteponendola talvolta all’ efficienza meccanica, e chi invece dopo aver  ottimizzato il rendimento di motore e sospensioni nel rispetto dei canoni classici, cerca di cogliere l’essenza di propulsori che sembrano trovare una nuova giovinezza grazie all’opera di meccanici appassionati.


Anche nel rispetto della classicità, il lavoro sull’assetto di guida è stato notevole, tanto che stando distesi sul serbatoio alle alte velocità è percepibile il lieve vantaggio aerodinamico (ed il seppur minimo riparo) fornito dai due strumenti posti sulla piastra della forcella. I nostri padri, del resto, fendevano l’aria senza il benché minimo ausilio di carenature e allora perché non accontentarsi di due begli Smiths. Oltretutto non saranno precisissimi, ma quanto ad estetica non hanno nulla da invidiare alle “radiosveglie” di certi transatlantici a due ruote…Per la cronaca, dopo tutti i lavori fatti il Trident prende circa ottomila giri nelle marce alte, per una velocità massima di…tanti, tanti punti in meno sulla patente.



Per spiegare il tracollo dell’industria motociclistica britannica sono stati scritti centinaia di articoli e persino un paio di  libri, questi ultimi talmente minuziosi nella ricerca delle possibili cause da risultare un tantino tediosi. Penso di averli letti tutti ma, forse perché sono duro di comprendonio, ancora non credo che a causare il declino di Norton, Bsa, Triumph & C. siano stati solamente i grossolani errori di marketing, peraltro commessi dal management del gruppo NTV sottovalutando la concorrenza nipponica. Se si esclude la proverbiale tenuta di strada,  i prodotti inglesi erano effettivamente inferiori rispetto ai giapponesi in termini di  qualità costruttiva e affidabilità. Come però insegnano i successi di un noto marchio americano, l’obsolescenza progettuale e l’handling discutibile non comportano necessariamente il crollo di una casa motociclistica. Se per contro a decretare il successo di un marchio bastasse una affidabilità granitica, ora non staremmo versando lacrime sulle ceneri della Laverda e nemmeno accendendo ceri sulle perigliose sorti della Guzzi.
                                                                                                                                         Personalmente ho iniziato a farmi un’idea sulle altre cause della debacle commerciale delle Case inglesi proprio lavorando sulla Triumph dell’amico Ezio. Arrovellandomi sulle magagne che la poverina manifestava con proterva regolarità, finalmente una notte ho capito che la colpa non era solo del Trident, e che lo stesso valeva per molte altre moto inglesi, spesso afflitte da inconvenienti più o meno gravi. Parte della colpa era anche dei vari meccanici cui era stata affidata, incluso il sottoscritto. Viziati dalla perfezione di meccaniche più evolute, avevamo evidentemente dimenticato la placida determinazione che consentiva ai nostri colleghi di trenta o quarant’anni fa di non scoraggiarsi di fronte a un guasto, in realtà banale ma tanto distante dalle moderne logiche di funzionamento da sembrarci inspiegabile, irritante e, di conseguenza, irrisolvibile.



Doverosa la vista dal ponte di comando. L’angolazione radicale del “due pezzi” Tommaselli ha richiesto la realizzazione di due fermi di fine corsa di squisita fattura, posti sulla piastra inferiore della forcella, a salvaguardia delle dita del pilota che finivano regolarmente stritolate tra il manubrio ed il serbatoio. 

Made in Breno anche la leva del freno: improntata ad una francescana funzionalità, viene ricavata dall’ originale Triumph in tubo, drasticamente alleggerita e dotata di un delizioso pedale in alluminio godronato, regolabile su due posizioni. Anche il fermo registrabile del fine corsa viene ricavato dal peno e pesa pochi grammi incluso il registro. 
L’affinamento della ciclistica, oltre a consentire uno sfruttamento ottimale del motore potenziato, ha permesso di evitare il ricorso al frenasterzo, il cui pomello ha ora solamente una funzione decorativa, mentre prima veniva spesso utilizzato nel tentativo di limitare le oscillazioni dello sterzo alle alte velocità… per quelli che pensavano che il chattering fosse un’invenzione di Biaggi.



Smontando e rimontando il tricilindrico di Coventry, mi è difatti tornato in mente quando un altro restauratore, già allora ricco di anni e d’esperienza, mi ripeteva che questi motori richiedono un approccio diverso. Gli assemblaggi, i materiali e le stesse componenti  – ammoniva - viste con l’occhio del meccanico di oggi, è difficile credere che possano funzionare, eppure funzionano eccome. E aggiungeva, incurante del mio scetticismo calvinista - a volte un particolare presenta una caratteristica che giudicata secondo i  canoni della tecnica attuale dovrebbe addirittura impedire al motore di avviarsi. Il “difetto”, che spesso risiede in un accoppiamento apparentemente poco corretto dal punto di vista meccanico, si “abbina” a quelli delle parti collegate, permettendo al complesso una discreta funzionalità. Assemblando invece il tutto con criteri e tolleranze moderne, tu credi di migliorare ed ottieni per contro il risultato opposto. Giova a questo punto l’esempio fatto da un celebre progettista aeronautico, che amava sottolineare come la forma del calabrone risulti assolutamente inadatta al volo. Essendo però all’oscuro della suddetta limitazione, il simpatico insetto vola perfettamente da milioni di anni!.  Con questo non mi azzardo a confutare i pilastri su cui si regge la meccanica moderna.  Mi limito solamente a considerare come, per ottenere buoni risultati con motori e ciclistiche “datate” come quella del Trident, sia necessario anche comprenderne la filosofia. Afferrare il segreto di un propulsore consiste nel comprendere fino a che punto vanno pedissequamente applicate le nozioni apprese sui manuali e quando, invece, bisogna affidarsi all’istinto ed alla sensibilità. Tanto per fare un esempio, revisionare un Trident con tolleranze degne di una racer giapponese, trascurando le dilatazioni cui queste rustiche unità vanno soggetti e grazie alla tendenza a produrre vagonate di calore, causa dei problemi tranquillamente evitabili con un accoppiamento meno stretto tra cilindri e pistoni.


In una moto sportiva sono i dettagli a fare la differenza: per evitare un rinvio che sarebbe andato a discapito della precisione è bastato rovesciare la leva del cambio. La leggerissima pedana da corsa, ricavata dal pieno in ergal, è stata dotata di uno snodo per non interferire con il pedale dell’avviamento.
Avantreno controcorrente, visto che per attenersi ad una preparazione d’epoca al poderoso Fontana da 250 millimetri non è stata abbinata la consueta “replica” della Ceriani. Revisione e la messa a punto della forcella originale effettuate dagli specialisti della Classic Farm di Breno (BS) hanno reso comunque irreprensibile la tenuta di strada, con un minimo sacrificio in termini di comfort. Più impegnativo è risultato il lavoro sulla replica del grosso freno a doppia camma, che ha richiesto un paziente lavoro di tornitura per ottenere un adeguato accoppiamento delle ganasce con la pista frenante. I “ragazzi” bresciani (in due hanno quasi un secolo…) contattabili al 338/83.66.255, sono specializzati in modifiche e messe a punto di moto d’epoca…oltrechè in “smanettate” e raduni a sfondo motociclistico ed eno-gastronomico…visto che la loro valle offre grandi opportunità in entrambi i sensi.
Notevole la luce a terra, grazie anche alle pedane poste in posizione rialzata, a tutto vantaggio delle possibilità di piega. Negli anni settanta,  pneumatici come i mitici Dunlop K81 facevano la differenza in curva. Oggi, a chi è abituato al grip delle gomme moderne, l’approccio può risultare un filino ostico. In realtà è possibile osare ben più di quanto faccia supporre il profilo abbastanza squadrato per i canoni moderni, tanto che chi scrive ci ha vinto recentemente una gara in salita. Da notare come, nonostante la pioggia torrenziale, nella stessa gara questa Trident, guidata dal suo fortunato proprietario, abbia colto un sorprendente quanto meritato quarto posto. La piastra di supporto modificata per ospitare le pedane da corsa è una Norman Hyde: il montaggio elastico risulta particolarmente efficace nell’attenuare le vibrazioni.
I carburatori sono gli Amal Concentric da 30 mm. sostituiti agli originali da 27 e muniti di cornetti in alluminio ricavati al tornio.  A conferma dell’indole sportiva del propulsore, il radiatore dell’olio è di serie. Grazie anche all’impiego dell’olio Syneco RS 113, la temperatura del lubrificante non raggiunge i livelli di guardia neppure durante le peggiori ” tirate”.
Anche al retrotreno troviamo un Fontana “replica” a doppia camma, ma da 230 mm. In questo caso la messa a punto è stata finalizzata a trovare la modulabilità necessaria a scongiurare pericolosi bloccaggi. Oltre alla minacciosa “bocca” del tre in uno verniciato in nero opaco, si nota la presenza di un genuino cerchio in alluminio a bordo alto. Con ciclistiche “classiche”, previa adeguata regolazione dei raggi, la ruota tradizionale Borrani record o Akront che sia, si rivela non meno performante della monolitica in lega, la cui superiore rigidità, invece, meglio si abbina alle sospensioni evolute delle moderne maximoto.


In questo caso, la capacità del meccanico-restauratore consiste nel riuscire a capire quando val la pena di accanirsi per migliorare le condizioni di funzionamento di un componente e quando è invece preferibile accontentarsi del miglior compromesso possibile, per non alterare l’equilibrio tra le parti. Ricorrendo sempre all’esperienza accumulata sul Trident, un esempio di questo problema si verifica quando potenziando l’impianto frenante si finisce per mettere in crisi la forcella, caratterizzata oltre che da un’ idraulica piuttosto rudimentale dal ridotto diametro degli steli. A questo punto si potrebbe adottare uno dei vari kit di upgrading dei pompanti, facilmente reperibile sul mercato inglese. Una soluzione ancora più radicale sarebbe montare una forcella più performante, per poi accorgersi, anche in questo caso, che la sua maggior efficienza, per essere sfruttata appieno richiederebbe un incremento dell’impronta a terra del pneumatico, con un discreto sacrificio in termini di maneggevolezza, accettabile nell’ impiego sportivo o agonistico, ma eccessivamente oneroso nell’uso stradale, cui la moto ritratta in queste pagine viene adibita.  Questo dimostra come, pur partendo da presupposti del tutto fondati, cercando di migliorare il comportamento dinamico di una moto d’epoca, basti poco per alterarne il delicato equilibrio. Per un impiego stradale anche veloce, invece, una accurata revisione della forcella originale, con lappatura degli steli e dell’interno dei foderi, abbinato all’’impiego di un olio specifico per sospensioni di motoclassiche ed una buona messa a punto, garantiscono un risultato ottimale ad un costo ragionevole.

Rispolverando un termine divenuto ormai desueto nell’era CAD-CAM, sulle vecchie moto, possono essere ottenuti dei risultati degni di nota dal punto di vista prestazionale - inteso anche in termini di handling e sfruttabilità del mezzo da parte di un pilota medio - anche limitandosi ad un certosino lavoro di aggiustaggio delle parti.



Come avveniva sulle special degli anni sessanta, la sella è stata abbassata rendendo il codino più pronunciato. Il profilo incavato, oltre a  trattenere meglio nella guida sportiva, contribuisce ad abbassare il baricentro, il cui posizionamento rende il Trident originale meno a suo agio nel misto stretto rispetto al più agile Bonneville. I due “tronchetti” del manubrio in due pezzi, abbinati alle piastre portapedane arretrate di Norman Hyde e ai pedali freno e cambio modificati artigianalmente, rendono la posizione di guida funzionale anche per le persone di alta statura.



 La conformazione dello scarico è stata modificata più volte alla ricerca del rendimento ottimale. Ora è completamente libero: il rantolo baritonale emesso ai bassi si tramuta agli alti regimi in un urlo rabbioso, invero sgradito ai tutori dell’ 0rdine, ma favoloso quando si percorrono certe strade poco frequentate della Val Camonica.





Tornando all’ argomento iniziale, un’altra delle cause “ambientali” che hanno determinato il declino dell’industria motociclistica d’oltremanica, risiede a mio avviso nella nascita di un nuovo tipo di motociclista, che il mio amico Marco suole apostrofare col pittoresco termine di “fighetta”. Attratto dal baluginio delle cromature più che dalla lucentezza dell’alluminio, ottenibile solo previa faticosa lucidatura, questo nuovo esemplare della fauna a due ruote fa la sua apparizione sul finire degli ani settanta. Rispetto ai “prImitivi” a bordo di vibranti mono o bicilindriche, si distingue per il fatto di non volersi cimentare con la manutenzione della propria cavalcatura, della quale conosce a malapena il ciclo di funzionamento, a due o a quattro tempi, ma non manca di ostentare il frazionamento e la velocità massima, curiosamente coincidente o addirittura superiore a quella, già ottimistica, dichiarata dal costruttore. A differenza dell’appassionato che ama dedicarsi personalmente alla manutenzione della propria amata, questo tipo di motociclista la vorrebbe invece immune da regolazioni, affidabile come uno scooter o – sic -  una  automobile. La guida sincera ma impegnativa, l’impianto elettrico bizzoso e la frequenza delle messe a punto caratteristiche delle moto inglesi, non di rado bisognose di interventi “on the road”, risultano ovviamente inaccettabili per questo tipo di utente e decretano il successo delle concorrenti giapponesi che, fatte le debite eccezioni, continuerà più o meno incontrastato per quasi mezzo secolo.

Dopo un orgia a base di valvole, alberi a camme in testa e centraline ad anticipo variabile, da alcuni anni, tuttavia, uno dei periodici fenomeni di riflusso ha riportato in auge le moto dalla meccanica tradizionale - non necessariamente obsoleta - che però proprio per questa loro caratteristica sono in grado di suscitare emozioni anche senza raggiungere regimi di rotazione e velocità aeronautiche.Parecchi motociclisti sono quindi tornati ad apprezzare la generosa “schiena” dei motori ad elevata cilindrata unitaria, abbinati a un design essenziale e a componenti metalliche, in alternativa alla banale termoplastica e ai materiali compositi, tanto diffusi da risultare quasi banali, specie su certe”naked” che, per svariati motivi, non hanno certamente nelle prestazioni  assolute il proprio punto di forza.

Il traffico sempre più nevrotico e l’introduzione della patente a punti hanno reso anacronistico l’impiego stradale di bolidi da centosessanta cavalli, portando parecchi motociclisti a riscoprire il piacere di una guida che – senza risultare necessariamente lenta- consente anche di accorgersi dell’ambiente circostante.

A questo punto, di motivi per usare in tutte le occasioni che lo consentono una moto d’epoca, italiana, inglese o di qualunque altra nazionalità, pensiamo di avervene forniti a sufficienza. Nelle didascalie allegate alle foto di questo servizio, se non vi lascerete distrarre dalle grazie virginali della modella, troverete l’ ispirazione per rendere la vostra cavalcatura più sportiva e divertente o, se preferite, personalizzata in base ai canoni dell’ epoca. Si tratta in ogni caso di modifiche pertinenti, ispirate a quelle in auge nelle competizioni per drrivate di setrie degli anni settanta e che non stravolgono quindi lo spirito della moto. In caso di pentimento, inoltre, risulta anche abbastanza agevole riportare la moto alla condizione originale.
     



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