Triton Classic Farm

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A CAFE FROM LONDON

di Fabrizio - Classic Farm Motorcycles (BS)



MOTO E MITI

Il mondo delle due ruote è ricco di miti più o meno fondati: fatta eccezione per i veri "cancelli", ovvero quei modelli che si sono guadagnati meritatamente una pessima reputazione, anche molte delle moto che negli anni sessanta vantavano eccellenti prestazioni, giudicate in base ai parametri attuali risulterebbero impietosamente obsolete. Su un percorso appena veloce, la maggior parte di esse non terrebbe il passo di una moderna sport tourer guidata senza troppo impegno. Nel ristretto gruppo di "classiche" che invece da un simile confronto non uscirebbero sconfitte, uno dei primi posti spetta di diritto  alla Triton, grazie alle eccezionali prestazioni garantite dal telaio Featherbed.

Per comprendere il valore di questa special, inglese quanto il Tamigi e il rito del the pomeridiano, ripercorriamo la nascita e l'evoluzione della regina delle cafe racer. Nel 1949, a Belfast, Rex McCandless realizza un telaio destinato a sostituire sulla Norton monoalbero 500 l' ormai superato "Garden Gate". Il tecnico irlandese, coadiuvato da Oliver Nelson, crea una struttura in tubi Reynolds 531 di acciaio al manganese-molibdeno. La tecnica utilizzata fino a quel momento era basata sull' innesto dei tubi in congiunzioni di acciaio forgiato mediante brasatura a ottone. McCandless si avvale invece della saldo-brasatura di derivazione aeronautica denominata SIF-Bronze, che consente la giunzione testa a testa dei tubi. Questa particolarità e l'eccellente "riempimento", con un ampio raggio di raccordo tra i vari elementi grazie alla bassa temperatura di fusione del materiale di apporto, permette di assemblare un telaio che abbina una notevole resistenza alla leggerezza. La rigidità viene inoltre incrementata dall'innovativo intreccio dei tubi nella zona del cannotto di sterzo. Nel nuovo telaio i due verticali scendono a creare la doppia culla e risalgono  dietro al complesso motore-cambio, per  poi tornare al cannotto di sterzo senza interruzioni. Le prove comparative all'isola di Man danno risultati incoraggianti, confermati  al TT dal trionfo di Duke e Bell, che polverizzano i primati sul giro nelle classi 350 e 500, posando una pietra miliare nell'evoluzione dei telai motociclistici.




In una Triton tutto è classico e minimalista, a partire dal leggerissimo serbatoio Manx in alluminio battuto a mano.
Persino il tubo che
supporta la levetta dello starter contribuisce a irrigidire l'esile  piastra superiore della forcella.
Il contagiri Smiths meccanico è montato su una staffa Converta. Allungati sul serbatoio potete vedere la vostra
immagine riflessa nell'alluminio lucidato a specchio o crogiolarvi  alla vista del delizioso tappo  Enots "Monza".
La maneggevolezza del Featherbed fortunatamente perdona anche qualche distrazione.





GENESI DELLA SUPERBIKE DEGLI ANNI 60


La stabilità, e il comfort assicurati al pilota dall'abbinamento tra il nuovo telaio e la forcella "Roadholder", inducono un altro famoso pilota inglese, Harold Daniell, a coniare la definizione "featherbed", ovverosia "Letto di piume". Grazie ad esso le monocilindriche tornano competitive nel campionato mondiale, battendo in più di una occasione le più potenti quattro cilindri Gilera e MV, penalizzate da ciclistiche sottodimensionate rispetto al propulsore. Nel '51 la produzione del "Featherbed" viene trasferita dall'officina di Bracebridge Street, a Birmingham, direttamente alla Reynolds. All'inizio il nuovo telaio è destinato esclusivamente ai modelli da competizione, ma l'anno successivo, con la Dominator 88 De Luxe, viene utilizzato anche sui modelli stradali nella meno costosa versione con i tubi di acciaio al carbonio, che smetterà di equipaggiare nel '67 la produzione Norton, con la presentazione della nuova Commando. Nel 1960 era stata introdotta anche una versione con una larghezza ridotta,  la "slimline", che pur offrendo le medesime prestazioni viene da alcuni ritenuta inferiore rispetto all'originale "wideline", che resterà sempre esclusiva del Manx 500 GP.
Solo alla fine degli anni sessanta, l'arrivo del Commando segna il tramonto dal punto di vista produttivo del "letto di piume", ma contribuisce a consolidarne la fama. Fama che, almeno in questo caso, è talmente meritata da durare fino ad oggi. Non è un caso, infatti, che proprio in quegli anni le "cafe racer", ovvero le special assemblate abbinando il meglio della produzione motociclistica inglese, stiano vivendo il proprio periodo d'oro. Alla ricerca del massimo delle prestazioni, i "rockers" mischiano motori, telai, sospensioni e freni di varia provenienza. Nascono così pittoreschi "ibridi" tra componenti Triumph, BSA, Norton, Matchless, Ariel, AJS, Royal Enfield, HRD-Vincent, Velocette e così via. Durante la settimana, nei cortili e nelle officine fervono i lavori sulle special che la domenica infiammeranno le sfide sui circuiti improvvisati intorno ai pub, da cui la colorita definizione di "cafe racer". La paternità di questo termine è incerta: da molti viene attribuita a Paul Dunstall, un preparatore che ne fu il principale protagonista dal punto di vista commerciale. Ancora più difficile è risalire a chi abbia avuto per primo l'idea di installare il leggero e performante bicilindrico Triumph nella culla del Featherbed", dando vita alla leggendaria Triton. Il merito dal punto di vista prettamente storico viene generalmente riconosciuto a un certo Doug Clark, ma quello di aver dato un'impostazione rigorosa all'evoluzione della Triton, e con essa all'intero movimento delle cafe racer, spetta al rubizzo londinese Dave Degens.



I CANONI DELLA CAFE RACER

A onor del vero, delle famigerate sfide cittadine che ogni domenica lasciavano sull'asfalto diverse vittime, oggi Degens ricorda di averne disputate pochine, impegnato com'era a tirar fuori un po' di potenza da un' asmatica Matchless 350 ex-militare. I destini di Dave e della Triton si incrociano quando l'ennesimo fuorigiri piega una valvola del Matchless. La moto e il suo incredulo proprietario vengono trainati a casa a oltre cento chilometri all'ora da un certo Johnny Grey, in sella ad una Triumph T110 con telaio Manx. Riflettendo sull'accaduto, Dave decide di impostare in modo meno artigianale la propria attività di elaboratore. Rileva l' officina di un rivenditore di scooter chiamato Dresda Autos, del quale conserva la denominazione, e con grandi sacrifici si procura un tornio e una fresa. Nel 1960 Degens propone la sua interpretazione della Triton: è una moto essenziale e terribilmente efficace nella tenuta di strada e, cosa ancora più incredibile, fondamentalmente identica a quelle che Dave realizza tuttora nella sua caratteristica officina, con immutata passione da quasi mezzo secolo.  Due anni dopo, Degens abbina alla costruzione di moto complete la produzione di telai featherbed, piastre motore, scarichi, freni e tutto quel che serve per assemblare una special: dettando in pratica i canoni di purezza della cafe racer. Contemporaneamente  all'attività di "tuner", dal '59 Dave inizia la sua avventura come pilota, culminata nel '70 con il primo posto alla 24 Horas de Barcelona, in coppia con l'amico Ian Goddard, chiaramente alla guida di una Dresda con motore Triumph e telaio Manx.



DAL SUSSEX ALLA VALCAMONICA

La moto che vedete in queste pagine, ricostruita dai ragazzi della Classic Farm Motorcycles di Breno (BS) nasce da un lavoro iniziato nel Sussex da J.C. Buckett,  per conto di un certo Paul Mitchell, ed è stata assemblata utilizzando esclusivamente componenti d'epoca. La prima immatricolazione è avvenuta in una località storica per una cafe racer, ovverosia Brighton, teatro di accesi scontri, non solo a sfondo motociclistico, tra rockers e mods.  Grazie all' accurato lavoro svolto dall'officina bresciana, nonostante il cospicuo incremento prestazionale essa è tuttora conforme ai canoni della "golden era" delle cafe racer. Il telaio wideline del 1959 è abbinato alla canonica  forcella Norton "Short" Roadholder con molle a vista. Il motore è un classico T110 Pre-Unit  del '61 e, come spesso accadeva all'epoca, sul basamento della più tranquilla Thunderbird è stato trapiantato il gruppo termico della Bonneville, per poter montare due carburatori. La trasmissione primaria rimane affidata alla tradizionale catena Renold, preferita per motivi di originalità alla più pratica cinghia in gomma, diffusamente impiegata nelle gare storiche. Rigorosamente originali anche la sella, il parafango con i caratteristici attacchi e il leggerissimo serbatoio in alluminio da cinque galloni, fissato dalla fascia cromata tipica delle  moto da competizione degli anni cinquanta. Anche le piastre che vincolano il motore e la scatola del cambio separato al telaio sono quelle "giuste", ricavate dal pieno in lega di alluminio da cinque sedicesimi di pollice, pari a circa otto millimetri. A dispetto dello spessore apparentemente esiguo, sopportano le notevoli sollecitazioni impresse dal tiro della primaria, la cui regolazione avviene mediante dei semplicissimi supporti asolati muniti di registri. Prerogativa della vera Triton è infatti l'assoluta essenzialità: c'è esattamente quel che serve per andar forte e frenare a sufficienza e non una vite di più, e questo la dice lunga sull'esperienza accumulata da chi ha pensato questa motocicletta.  Di rigore, sul ponte di comando i corti semimanubri "clip-on", le manopole Doherty e l'irrinunciabile contagiri Smiths con supporto in alluminio della Converta.








Fabrizio ha iniziato l'assemblaggio della Triton nella storica, vecchia officina della CFM e il lavoro si è
concluso dopo il trasferimento nella nuova sede




Per il freno anteriore è stata utilizzata una delle più efficaci unità disponibili nei primi anni settanta: il doppia camma da otto pollici delle Yamaha TD da gran premio. Questa apparente contaminazione, tutt'altro che insolita all'epoca, non deve scandalizzare: per ovviare alla nota pigrizia dei freni nazionali, i rockers non andavano per il sottile, ricorrendo anche agli italiani Grimeca, Ceriani e Fontana, oggi quasi inflazionati sulle repliche, erano invece poco utilizzati per via dell'elevato costo. Unica concessione alla modernità è stata l'accensione Lucas Rita, un must se si vogliono evitare le tribolazioni dell'impianto originale.

L'avventura italiana di questa moto inizia nel '94: dopo una revisione effettuata dallo specialista britannico Joe Dumphy, viene acquistata da un collezionista che riesce a superare le pastoie burocratiche della nostra Motorizzazione, per poi cederla nel 2002 a un suo concittadino, pure lui appassionato di moto inglesi. Per diverso tempo la manutenzione è affidata alle abili mani di un meccanico torinese. Quando però il proprietario si trasferisce in un'altra città, inizia la difficoltà a trovare qualcuno che possieda la competenza, e soprattutto la pazienza, necessarie per accudire una paziente bizzosa e sofisticata come si addice a una regina. Nonostante le robuste parcelle, la visita a un paio di "santoni" delle inglesi non ridona alla moto l'originaria efficienza. Il proprietario si rivolge allora direttamente a Degens, che gli propone la trasformazione della Nourish Racing engines a quattro valvole per cilindro. Il kit della NRO di Langham, nel Leicestershire, deriva dalla trasformazione Weslake, progettata da R. Valentine a metà degli anni sessanta per ottenere dal motore Triumph T120 la potenza richiesta dai clienti USA. In base al motto "Biker's work is never done" la moto viene frettolosamente smontata e parte del motore spedito alla Dresda Garage. Dall'Inghilterra dopo qualche mese arriva la sospirata trasformazione a otto valvole, ma dovrà passare ancora parecchio tempo, e un ulteriore cambio di officina, perché il vitaminizzato Pre-Unit torni ad alloggiare  nel suo "letto di piume". La generosa iniezione di cavalli, ottenuta grazie anche all' incremento della cilindrata, rende infatti necessaria la realizzazione di un attacco artigianale tra la testa e il telaio, per evitare movimenti del motore indotti dal tiro catena.








Il fissaggio della testa al telaio costruito nell'officina bresciana, invece di una saldatura utilizza due collarini nella parte
 anteriore, per  assecondare il lieve "movimento" verticale del gruppo termico causato dalla dilatazione. In caso
contrario, le vibrazioni potrebbero  compromettere la tenuta della guarnizione o addirittura l'integrità del telaio stesso.




In compenso, questa modifica e l'accurato bilanciamento effettuato da Degens, riducono drasticamente le vibrazioni che affliggevano il motore originale. Esaminando il contenuto delle decine di cassette e scatole nelle quali la moto è stata portata alla Classic Farm, si scopre che dopo quasi tre anni di attesa diversi pezzi sono andati perduti. Il cambio richiede una revisione e le bronzine vanno realizzate appositamente al tornio. La campana della frizione presenta delle cricche nei punti più stressati e viene pertanto sostituita con una nuova. Secondo una prassi diffusa all'epoca, anche questa viene modificata con l'impiego di pezzi provenienti da diverse serie di motori Triumph, per garantire il corretto allineamento della trasmissione. Il circuito dell'olio, con il serbatoio separato posto sotto la sella,  si avvale ora della pompa maggiorata e dei condotti supplementari esterni previsti dalla NRE.






Per ovviare alla diversa conformazione dei collettori di aspirazione della testa Nourish, nell'officina bresciana vengono  realizzati dal pieno anche due raccordi in alluminio con i carburatori montati elasticamente. Oltre a diminuire la trasmissione di calore, cui gli anziani Amal in zama risultano molto sensibili, questa modifica evita l'emulsionamento della benzina nelle vaschette, rendendo più regolare  il funzionamento. L'allungamento dei condotti di aspirazione contribuisce inoltre a irrobustire il tiro, in vista dell'impiego stradale di un motore originariamente destinato alla pista. Il nuovo posizionamento dei carburatori costringe a modificare la posizione del serbatoio carburante. Anche la curvatura degli scarichi in prossimità delle teste deve essere rivista, ma con un po' di impegno si riesce a non alterare l'originalità dei tipici sweptback a sezione costante, che il proprietario vuole lasciare rigorosamente liberi.






Dopo diversi mesi di lavoro, Fabrizio riesce a far rinascere la Triton. Fin dai primi scoppi secchi e scanditi, l'emozione è enorme per tutti. Grazie al peso vicino ai centoquaranta chili, le prestazioni non fanno rimpiangere una moto moderna. La  maneggevolezza degna di una 125 e lo spunto vigoroso a dispetto dei rapporti lunghi rendono un'esperienza esaltante la guida sui percorsi misti. Dato il considerevole incremento del rapporto di compressione, anche una volta sostituito il pedale con quello più lungo del Trident  l'avviamento richiede una certa cautela. Abitando in montagna questo però è un inconveniente sopportabile, in cambio del piacere di guidare un autentico pezzo di storia del motociclismo.  





Il freno proveniente da una GP giapponese e la superba forcella Norton Roadholder, la cui idraulica non sfigurerebbe
anche oggi, consentono a una moto da  140 chili staccate notevoli per un mezzo del '59.


 



Nello showroom della CFM di Breno (BS)  la Triton durante una delle visite di controllo al cambio è
in buona compagnia, Laverda 750 SFC, BMW, Ducati, Motobi, ecc.







Allungati sul serbatoio potete vedere la vostra immagine riflessa
 nell'alluminio lucidato a specchio o crogiolarvi alla vista del delizioso
tappo Enots "Monza". La maneggevolezza del Featherbed fortunatamente
perdona anche qualche distrazione.






Un ringraziamento a




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