Chi è Marco Marchisio?
Marco ha lavorato in Numero Uno dal febbraio del 1991 all'ottobre del
2000 ed è stato uno strettissimo collaboratore di Carlo: "Dieci
anni con Carlo sono stati 10 anni di "lotta continua", perché il mio
lavoro era quello di tentare di realizzare quello che lui pensava,
cambiando idea un giorno sì e l'altro pure."
Ora si gode una meritata pensione prendendosi cura del suo uliveto. Non
ha più niente a che fare con il mondo delle motociclette.
Leggete questa pagina, non ve ne pentirete.
MARCO MARCHISIO racconta CARLO TALAMO
1999 - Triumph Day (Vairano) Marco Marchisio e Carlo Talamo
Sicuramente va distinto
il personaggio pubblico da quello privato. Io ho conosciuto più quello
privato, perché gli sono stato a contatto per la vita lavorativa giorno
per giorno per quasi 10 anni. Quella pubblica, quella desunta dalle
interviste, era un po' patinata e costruita, ma anche se un po'
costruita, non era contraddittoria con il suo carattere.
Carlo
Talamo (da ora in poi solo CT), si può dire, era un
po’ matto. E come eccelleva nelle cose positive anche quando si
incazzava era al di sopra delle righe. Una volta, non mi ricordo quale
fosse la causa, si incazzò così tanto che diede un pugno ad una carena
di una Triumph, rompendo la carena e rompendosi anche la mano!!! (Poi
aspettò qualche giorno prima di andare in ospedale a farsi curare, e
facendo finta di nulla, come se la fasciatura che doveva portare, fosse
una faccenda casuale, che non lo riguardava).
Quando era impegnato in
qualcosa che lo interessava era il Carlo Jackhill, quando perdeva il
contatto con quello che lo interessava, era Carl-Hide. Ed era questa la
vera difficoltà di lavorare con lui: approfittare degli attimi creativi
per "produrre" e realizzare e controllare gli attimi negativi per
tamponare la sua negatività che poteva diventare distruttiva. In quei
momenti, bisognava esser più forti di lui ed opporsi - opporsi a
disfare quello che era stato fatto, o lasciargli fare cose stupide (di
cui si sarebbe poi pentito), e sapergli dire di no, e non farsi nè
intimidire, nè spaventare.
1991 - Carlo scrive a Marco
Un personaggio pubblico (e CT lo era, in fondo) può essere
rappresentato con un ritratto in cui è a cavallo di un destriero in
posa marziale. Difficilmente gli si farà un ritratto in mutande e con
la goccia al naso. Se però anche una pagina non oleografica può
contribuire a completare il quadro della personalità di un individuo,
anche questa è importante. Carlo è stata una persona per molti versi
infelice (soffriva di depressione) ma attraverso la sua opera, il suo
lavoro, la sua passione, ha dato felicità a tanta gente con le sue
moto, i suoi raduni, le sue pubblicità, ecc ecc. Questa era sua ricerca
della felicità.
CT era un individuo egocentrico, esibizionista,
capriccioso, testardo, innamorato di se stesso. Sono tutti aggettivi
che possono sembrare negativi, ma che costituivano la sua personalità,
senza dubbio fuori del comune. Carlo sapeva far innamorare la gente,
cosi come poteva risultare sgradevolissimo. Su di lui si sentivano solo
due pareri: c’era chi lo amava e lo ammirava e chi lo detestava e non
lo poteva sopportare.
Egocentrico: tutto
doveva partire da lui e girare attorno a lui. La Numero Uno l'ha creata
a sua immagine e somiglianza ed è diventata il modello per altre
imprese motociclistiche o per altre imprese commerciali.
Esibizionista:
fino a che ha potuto (poi i reumatismi lo hanno costretto a mettersi le
calze) ha circolato estate ed inverno senza calze con le famose scarpe
da tennis bianche. Gli piaceva stupire con bigliettini da visita su cui
c'era scritto "Carlo Talamo - padrone" o con promemoria (i famosi
foglietti 8x8 che si faceva preparare blocchi cubici) che portavano
l'intestazione "viva la figa!", o con suoi disegnini da bambino
dell’asilo, ma si rifiutava di parlare di "dipendenti" (ed è arrivato
ad averne forse più di un centinaio).
Capriccioso: come
un bambino. Se si metteva in testa qualcosa che lo intrigava, diventava
puerile ed era capace di fare vere pazzie per ottenerla. Ti confesso
che spesso anch'io non sono riuscito a capire se certe sue posizioni le
sosteneva solo per partito preso, tanto per rompere i coglioni alla
gente, o perché ne era veramente convinto (e in tal caso era da
manicomio). Citerò più avanti due episodi che intitolerò “Carlo e le
sue barche” e “Carlo ed i container”.
Testardo: Su certe
posizioni, (parlo di argomenti lavorativi) per convincerlo a fare
alcune cose, o convincerlo a non farle, bisognava essere più testardi
di lui e lavorare-lavorare-lavorare fino a che lo si piegava. Mi viene
in mente la fatica che feci per fargli comprare un muletto
elettrico da usare nel capannone di Arese (lui ne aveva comprato
uno a benzina che intossicava la gente, e non voleva sentire ragioni),
oppure voleva stoccare le moto (parlo di Harley) in ordine di modello,
perché...era bello. Pazienza se per prelevare una moto bisognava
spostarne venti e poi rimettere tutte le casse a posto come prima,
sprecando una mattinata... Insomma, non aveva senso pratico, e quando
pensava di far qualcosa, non pensava mai se poteva o non poteva farla,
o come farla nella maniera più razionale ed economica: partiva e poi
bisognava corrergli dietro ed aggiustare i danni. Per
fortuna alla fine acconsentì a comperare il muletto elettrico, ma volle
che tenessimo anche quel pestifero muletto a benzina, che poi si portò
nel suo garagino privato. Per quanto riguarda lo
stoccaggio delle moto, lo convinsi a dotare il magazzino di una
bellissima fila di scaffalature su cui appoggiare su tre livelli 6
casse di moto. Mi pare che quando le scaffalature erano sature, avevamo
in deposito 90 motociclette. Per un po’ insistette a volerle tenere
separate per modello, poi si convinse che non aveva senso, e non si
interessò più della loro movimentazione.
Innamorato di se stesso:
lui si definiva “un uomo con lo spirito da donna”, nel senso che voleva
sentirsi lodato, non contraddetto, coccolato, ecc. Quando qualcuno lo
"trattava male", se la prendeva in maniera assurda, e diventava
"nemico" di chi gli si metteva contro. Ne so qualcosa anch'io che per
un anno ho dovuto lottare contro di lui - fuori di testa - perché lo
avevo contraddetto sulle giacenze delle moto e sui budget di vendita, e
purtroppo per il suo amor proprio, avevo avuto ragione io.
Democraticamente (si fa per dire)
preferiva definire tutti “collaboratori”. Faceva la
pubblicità sul Sole 24 ore con una sua foto con la faccia da scemo ed
un passamontagna, perchè sapeva che il giorno successivo, presentandosi
in una Banca l'avrebbero riconosciuto subito, e i direttori sarebbero
stati affascinati dalle sue storie sulle moto.
Ma tutte queste qualità negative, diventavano positive nel
Carlo Talamo imprenditore e venditore della sua immagine. Vale quindi
il detto che nessun grand'uomo è grande per il suo maggiordomo; però se
il maggiordomo è onesto, anche se vede il suo "padrone" in mutande o ne
conosce le debolezze, deve conoscere e riconoscere anche i lati che lo
fanno "grande".
Rapporto con i soldi?
Da delirio. Quando il business Harley è partito, la Numero Uno è
diventata una macina sputasoldi, e gliene devono essere entrati in
tasca tantissimi, sia in chiaro che in nero. Che comunque spendeva (e
spandeva) sia per i suoi "capricci" - auto, moto, barche, case, ma
anche per la sua "Numero Uno di Arese" o per i suoi negozi di Milano,
Firenze e Roma.. Chi visitava Arese era colpito dagli
arredamenti, dalle finiture, tutte cose fatte su misura, da suoi
fornitori (mobilieri di Cantù) che in lui avevano qualcuno da
"sfruttare" allegramente, perché non si faceva mai fare un preventivo e
pagava cash. Questo non toglieva che magari ordinasse un mobile, e poi
lo facesse smontare o lo respingesse perché "non gli piaceva più"
(pagandolo due - tre volte). Per allestire gli stand dei saloni del
Ciclo e Motociclo spendeva cifre colossali. I suoi stand, Harley e
Triumph dovevano "stupire", ed aveva una corte di fornitori/architetti
amici che lo assecondavano, perchè conoscevano il suo carattere
capriccioso, salvo poi presentargli parcelle da incubo.
Carlo si faceva fare i blocchetti personalizzati attraverso i quali organizzava tutte le sue attività
Metà anni
'90 - Due giocattoli di Carlo: Un Daytona 1200 ed una AC Cobra (grazie
a Stefano per la foto)
Un altro giocattolo di Carlo: una
bellissima Trident anni ’70 da corsa fotografata alla mostra scambio di
Imola nel settembre 2010 (grazie a TridentSpecial)
Comunque, per quello che posso dire io, CT aveva una
"vera" passione per le moto e per le auto, e ci giocava, come un
bambino che gioca con i suoi modellini o col meccano. Che poi abbia
trasformato col tempo questa sua passione in "lavoro" e ci cavasse da
vivere (con abbondanza), facendo vivere tanta gente tra dipendenti,
(pardon, collaboratori) concessionari e dipendenti dei concessionari,
non la vedo come una cosa negativa, anzi! Incarnava lo
spirito del vero imprenditore, perché investiva, arrischiava,
guadagnava, perdeva, ma sempre tenendo d’occhio l’insieme della sua
impresa, che voleva fosse migliore e diversa rispetto alle concorrenti.
Quanto agli amici ricchi... io non conoscevo gli "amici"
di CT, tranne superficialmente i suoi soci. Però l'ho spesso sentito
dire che in tanti lo chiamavano "amico" perchè magari gli avevano
parlato una volta durante un raduno, ma lui manco se li ricordava. Che
fossero ricchi, può essere: chi si poteva permettere un'Harley da 30/40
milioni (o magari più di una) negli anni '90 non era certo un barbone,
e giocare con quei giocattoli costava ancor più caro tra accessori,
modifiche, elaborazioni, ricambi ecc, per non parlare
dell'abbigliamento. Tanti clienti lo cercavano, e può essere che con
alcuni fosse diventato "amico" ma di parecchi erano amici forse nello
stesso spirito delle amicizie del Facebook di oggi: raccolta di
figurine, o relazioni di conoscenza per "vender" loro altre moto o
altre macchine (quando aprì Gialloquaranta).
Io sono convinto che molti ricercassero "l'amicizia" di CT perchè
faceva "figo" conoscere uno come lui e ne potevano parlare come una
specie di fenomeno. In fondo era diventato (specialmente a Milano) un
personaggio pubblico, come potrebbe essere conoscere che so... Sgarbi
piuttosto che un Toscani o un Armani. Lui era il loro organizzatore di
giochi (i raduni), ed il fatto che avesse un certo carisma e che ci
sapesse fare, completava l'atmosfera. Non bisogna dimenticare che dava
del "tu" a tutti, e molta gente interpretava questo come una patente di
amicizia immediata.
Non hai idea invece come si difendesse dalle telefonate:
rispondeva a tutti, ma sempre per iscritto. Sapeva che se qualcuno lo
catturava, finiva per sottoporgli qualche appunto per le moto:
lamentele per ritardi di consegne, (una moto era programmata per Marzo,
ma l’Harley la spediva a Giugno!) raccomandazioni per avere un certo
colore, richieste di modifiche, informazioni sui raduni…. Tutte cose
che gli avrebbero portato via un’infinità di tempo, e lo avrebbero
irritato. Le sue assistenti, prima Elena, poi Enrica, ed infine Silvia,
avevano l’incarico di filtrare tutte queste richieste e di
sottoporgliele depurate da tutti i fronzoli. A tutti dava una cortese
ed esauriente risposta scritta (anche ai rompicoglioni), perché sapeva
che il vero patrimonio di un’impresa sono i clienti, e per loro
instancabilmente lavorava.
CT comunque i suoi affari li sapeva far bene. Un
prezzo era un prezzo e non lo scontava neppure sotto tortura, e questo
ha fatto la sua fama e la sua fortuna. Citava sempre che aveva fatto
pagare il prezzo pieno per la 883 della sua fidanzata Teresa, e neppure
a lei aveva fatto lo sconto. Se non lo aveva fatto a lei, perché
avrebbe dovuto farlo a Tizio o a Caio?
Le riunioni di Carlo erano "assai motivanti." Non parlava solo di moto,
ma (soprattutto) di molta "figa", e credo sia un argomento che "tira
sempre" e elettrizza chi deve partecipare a riunioni per la vendita.
Sarebbe
stato capace di far percepire una Ape car alla stregua di una
Aston Martin....e i concessionari l'avrebbero come tale venduta.
Quando ha venduto la NU agli americani ha preso un
bel pacco di soldi, perché gli americani sapevano che, se non gliela
avessero comprata a quanto chiedeva, non avrebbero avuto in mano il
mercato Italiano per qualche anno. HD si è trovata in mano una
bellissima rete di concessionari monomarca assai motivata e tirata a
lustro, e non una robetta da ridere. Io ho sentito parlare di qualche
decina di miliardi (delle vecchie lire), ed è un vero peccato che CT
non se li sia potuti godere. Se lo sarebbe meritato perché ci
aveva messo tanto sudore.
Ricordi? Dieci anni con Carlo sono stati 10 anni di “lotta
continua”, perché il mio lavoro era quello di tentare di
realizzare quello che lui pensava, cambiando idea un giorno sì e
l'altro pure.
Inseguire un genio (nel suo settore Carlo lo è stato
indubbiamente) non è stato semplice, ma è stata un'esperienza
professionale eccezionale, e di questo gliene sono grato. Con CT per
lavorare, dovevo scrivere tutto perchè era un genio della comunicazione
e del marketing, ma assolutamente "selvaggio" per quanto riguarda la
gestione commerciale e generale di un'azienda. Azienda che arrivò a
fatturare complessivamente oltre 100 miliardi nel momento in cui ebbe
contemporaneamente in gestione i marchi HD, Triumph, R-R e Bentley con
quasi 100 dipendenti diretti, distribuiti tra le sedi (negozi,
magazzini ed officine) di Arese, Milano, Roma e Firenze.
Nel suo massimo splendore il gruppo era così strutturato:
c’era la holding Numero Uno Italia Spa che controllava Numero Uno srl,
Numero Tre srl e Gialloquaranta (credo srl, ma non sono
sicurissimo) come società dedicate all'importazione e alla
commercializzazione dei veicoli rispettivamente Harley-Davidson/Buell -
Triumph e Bentley/Rolls-Royce. Poi esistevano le Numero Uno Milano srl,
che controllavano i negozi Harley-Davidson di Milano, Firenze e Roma e
la Numero Tre Milano srl che controllava i negozi Triumph di Milano,
Roma e Firenze.
Un casino di carte intestate, partite IVA, timbri e
fatture che sarebbe stato (più) facile gestire se non ci fosse stato
CT. Infatti, siccome era tutto suo, non concepiva che ci dovesse essere
un iter burocratico per ogni vite che si spostava da una parte
all'altra. Non era possibile infatti alla fine del mese i conti
tornassero se mancava tutta la documentazione intermedia che
accompagnava ogni acquisto e ogni vendita (ti ho raccontato quale fosse
il PC/archivio di CT, fatto di foglietti 8x8 che stracciava ogni volta
che - secondo lui - ogni cosa era finita).
Per quanto riguarda le domande che mi fai sulle società di
CT, premetto che CT non voleva numeri pari, e quindi si spiegano la
Numero 1, 3 e 7 - La Numero 5 non è mai esistita, ne ho idea se ci
abbia mai pensato per fare qualcosa. Credo di no, ma entrare in tal
(nel senso di tal-amo) cervello non era sempre facile.
La Numero 7 non è mai stata una società vera e propria:
non esisteva come ragione sociale effettiva, ma solo come una
divisione, un dipartimento...un qualcosa che commercializzava le auto a
ruote scoperte - non credo fossero Morgan, ma Lotus, oltre alle
Par-car (a benzine ed elettriche) vetturette per campi da golf. Quando
veniva venduta qualche par-car o Lotus, le fatture erano intestate
"Numero Uno". Però ricordo che esisteva una carta intestata Numero 7
(una bellissima carta giallina e rugosa, con il solito marchio ovale
ecc.)
Dell'esperienza di commercializzazione di queste infelici
auto da golf mi pare di averti scritto già parecchio in precedenza. Ho
ritrovato anche il nome della società alla quale vendetti tutto il
parco residuo, liberando il capannone di Arese che poi sarebbe
diventato quello della Numero Tre/Triumph. In ogni caso, la Numero 7
esisteva prima che fosse ideata e partorita la Numero 3.
Della Numero 7 ne dovrebbe sapere molto più di me Eligio,
che inizialmente lavorava su quelle catastrofiche auto a ruote
scoperte. Quando io arrivai in Numero Uno, Eligio era già in forza, e
penso che CT cercasse di liberarsi da quel business che gli portava più
grane che soddisfazioni (in tutti i sensi). Eligio conosceva bene anche
le Par-car, perché era lui che ci metteva le mani quando se ne doveva
riparare qualcuna. Se non ricordo male anche l'esemplare di Lotus Seven
(ecco forse l'aggancio a Numero 7) che CT si teneva nel suo garage
privato, circolava solo con una targa inglese (forse tarocca?) perché
non aveva mai avuto l'omologazione in Italia. (Nè mai l'avrebbe avuta).
L'altra esperienza che CT fece con le automobili, fu
gestita con il marchio Gialloquaranta per la commercializzazione delle
Rolls-Royce e delle Bentley (quella poteva essere la Numero cinque), ma
Gialloquaranta era venuto fuori dal fatto che a 40 anni CT si era
potuto permettere la sua "prima" Rolls, che aveva fatto dipingere di
giallo (una vera provocazione!): un po' complicato da afferrare, come
concetto, ma era un eccellente spunto per le interviste coi giornalisti
incuriositi da quello strano nome.
Marco Marchisio: "Questa
è l'origine di GIALLOQUARANTA - Carlo che va a ritirare la sua prima
Rolls, sfacciatamente dipinta di giallo. La foto è stata scattata
da Carlo, ed io l'ho ricuperata da una mazzetta di documenti che
stavano per essere gettati quando Arese fu "occupata" dai nuovi
proprietari"
Per un po’ infatti tutti pensavano che il vero
importatore dei due prestigiosi marchi inglesi fosse il famoso Achilli,
e non concepivano che uno che si interessava di moto, potesse
interessarsi (e con buon profitto) anche di auto. L’esperienza
di Gialloquaranta si interruppe quando la casa madre inglese, non in
splendide acque, divenne oggetto dell’assalto di BMW e Volkswagen che
si contendevano i marchi Rolls-Royce e Bentley e lo stabilimento. Non
si capiva più chi era la controparte, ed ad un certo punto si seppe che
chi comandava aveva preferito appoggiarsi ad un altro importatore a
Roma.
2001
Giugno - Carlo Talamo e Marco Marchisio: "quando ospitai lui, la sua fidanzata
Federica e tutti i ragazzi della Numero
Tre a Netro per un pranzo di
ringraziamento e di addio. Fu una bellissima serata (e lo si può vedere
dal numero delle bottiglie....)"
Io ci ho vissuto insieme, nel bene e nel male dal Febbraio
1991 all'ottobre 2000, come dipendente e collaboratore, e da allora
alla sua morte come amico. L'ultima volta che lo incontrai fu alla
Numero Tre di Arese, dove ero passato a salutare i miei ex colleghi
Triumph (ero già in pensione dal maggio 2001, ma io ero un ex Harley),
giusto una settimana prima che ci lasciasse.
Stavo uscendo e lui entrò: era di ritorno dalla Triumph in
Inghilterra dove era stato a portare alcuni progetti di moto e credo
che si fosse fatto il viaggio di un fiato come era il suo solito, a
bordo del suo furgoncino Vito a tutto gas. Ci abbracciammo felici di
vederci e mi disse che finalmente capiva la mia scelta di uscire dal
mondo del lavoro: in teoria anche lui ci era uscito (aveva da poco
ceduto anche la Numero Tre) e si sentiva finalmente libero di dedicarsi
non più alle sue aziende (dalle quali aveva avuto molte soddisfazioni,
ma che lo avevano messo a dura prova), ma a ciò che più amava: le sue
moto e le sue macchine.
Aveva in testa mille idee e le voleva mettere in pratica,
specialmente come consulente di Mr. Bloor, per lo sviluppo di nuovi
modelli. Circolava anche la voce che l’avessero
contattato per rilanciare il marchio GUZZI, ma di questo non posso dire
nulla di certo.
CARLO AL VOLANTE
Ricordo un viaggio da incubo con CT (Carlo Talamo)
a
Bolzano, a bordo della sua Porsche argento. Andavamo ad oltre 200
all'ora, e mentre guidava, telefonava a Max Brun e gli leggeva i testi
della pagine che aveva ideato per alcune inserzioni Triumph, tutti
scritti con la sua illeggibile scrittura sui foglietti 8x8 che erano il
suo archivio (una volta concluso il lavoro il foglietto veniva gettato)
e parlava con me di quello che avremmo dovuto fare quel giorno. Prima
di andare a Bolzano a trovare Leonard della Numero Uno, dovevamo fare
una sosta a Brescia per visitare un
possibile futuro concessionario: visto che era sempre in corsia
di
sorpasso, passò, senza vederlo, il casello di Brescia Ovest e dovemmo
invertire la marcia al casello successivo di Brescia Est. Tornando,
ritoppammo l'uscita di Brescia Ovest e dovemmo fare di nuovo inversione
al casello successivo di Rovato. Si comportava come un artigliere per
centrare il bersaglio: prima tiro lungo e poi tiro corto, e finalmente
al terzo tiro "centro"!
La stessa cosa accadde a Bolzano. Prima lungo, poi corto e infine
Bolzano. Sulla via del ritorno schivò una cassa persa da un Tir davanti
a noi passando (sempre a velocità folle) non ricordo se tra la cassa e
il guard-rail, o tra cassa e un altro Tir. Ebbi per una settimana i
crampi alla gamba destra (per tutte le frenate che feci da passeggero)
e al braccio destro, col quale ero attaccato alla poltrona o alla
maniglia....
Un altro viaggio simile, ma ancor più
terrorizzante, lo
facemmo andando in Inghilterra per andare a vedere l’anteprima del
modello con il quale – purtroppo – si sarebbe ammazzato. Insieme
a me e Carlo, c’erano anche Mario Lupano e Fausto Broglia. All’aeroporto
Carlo affittò una macchina; questionò non poco con l’impiegato
dell’autonoleggio perché aveva prenotato un modello, ma quel giorno
quel tipo di vettura non era disponibile. Finalmente accettò il modello
che gli era stato proposto e partimmo alla volta di Hinckley. Quel
viaggio fu per me molto più terrorizzante, perché, mentre in Italia si
tiene la mano destra, in Inghilterra si tiene la sinistra, e non è
facile di primo acchito vedere che tutto il traffico si svolge al
contrario. Immaginate infatti di piombare alla massima velocità
consentita dall’autovettura (non dal codice della strada britannico, di
cui Carlo non teneva minimamente conto) ad una rotonda. Uno
inconsciamente, se non sta guidando, si aspetta di girare verso
destra. Frenata al limite e svolta a sinistra, e così per tutte
le
rotonde e per tutti gli incroci, da Heathrow a Hinckley.
Quando tornammo alla sera, rannicchiato nel sedile posteriore, mi
imposi di dormire, o quanto meno, di tenere gli occhi chiusi.
Indubbiamente Carlo guidava bene, ma alla “sua” maniera,
ed essere con lui in auto era un’esperienza che lasciava il segno.
Un ultimo viaggio con lui, Roberto Fasolini,
responsabile dell’amministrazione, Mario Lupano della Numero Tre e
Luigi Gastald della Numero Uno, lo feci per andare alla Numero Uno di
Savona, da Rino. Aveva convocato lì un po’ di concessionari della
Liguria, del Piemonte e della Lombardia per far vedere a tutti la sede
della nuova concessionaria Harley, che si stava trasferendo dal centro
di Savona alla zona industriale, in un nuovo e ben più ampio spazio.
Partimmo da Milano dopo l’orario d’ufficio su una Bentley nera. Cenammo
tutti insieme in un baretto della zona industriale e poi nel capannone
della nuova Numero Uno, ancora privo di riscaldamento, Carlo tenne una
delle “sue” lezioni di marketing, anticipando che tutti dovevano
migliorarsi ancor più e mettersi in campana perché presto sarebbero
iniziate le “ispezioni” dei responsabili della Harley-Davidson Europa,
in vista di un futuro probabile ingresso degli americani in Italia. Verso
la una ci salutammo. Alle due eravamo a Milano.
CARLO E LE SUE BARCHE
Carlo era appassionato di tutto ciò che
aveva un
motore a scoppio e che poteva andare veloce. Se avesse avuto un po’
più tempo, forse avrebbe anche comprato un locomotore diesel (non
elettrico, perché il motore elettrico non fa rumore) e si sarebbe dato
da fare per truccarlo un po’ ed elevarne le prestazioni. Comunque anche
le barche vanno a motore, e sebbene Carlo fosse a detta di molti un
eccellente wind-surfista (quindi un velista in sedicesimo) la sua
passione nautica si riversava sulle barche a motore.
Un giorno mi chiamò e mi disse che aveva acquistato dal
suo amico Carlo Marchiolo un Tornado, e che la settimana dopo lo
avrebbero consegnato ad Arese! Dovevo liberare il capannone
Gialloquaranta perché voleva parcheggiarlo lì.
Mi informai presso il costruttore, per prendere
accordi
sulla spedizione, e venni a sapere che era una “barchetta” lunga
una quindicina di metri e larga 5, del peso di qualche
tonnellata. Tornai da Carlo e gli chiesi come pensava di scaricarla e
farla entrare nel capannone.
Mi guardò stupito, e disse che ci pensava il
trasportatore. Di nuovo in contatto con il costruttore, che mi disse
che loro pensavano al mezzo di trasporto da Fiumicino ad Arese, ma che
allo scarico della barca ci dovevamo pensare noi. Loro ci potevano al
massimo mandare una struttura sulla quale appoggiarla.
Munito di metro, andai a misurare il portone del
capannone
e non mi fu difficile scoprire che il Tornado nel capannone non ci
sarebbe mai entrato, perché era più largo del portone, e anche se fosse
entrato, non avrebbe avuto spazio per girare, perché all’interno
c’erano degli uffici proprio davanti all’ingresso. Inoltre, come lo
avremmo spostato? Se avessimo preso una gru per imbragarlo e
scaricarlo, poi la gru non sarebbe passata comunque dal portone…
ergo…informai Carlo che non era possibile fare arrivare il Tornado ad
Arese.
Naturalmente si incazzò, perché in quel momento
lo
contraddicevo e se ne andò, dicendo che lui il Tornado lo voleva la
settimana dopo nel capannone Gialloquaranta. Passai il
pomeriggio a misurare e rimisurare spazi ed
ingombri, poi, alla Bruno Vespa, feci una pianta del sito di Arese e in
scala, ritagliai su un cartoncino la sagoma del Tornado e misi
tutto sulla scrivania dell’ufficio di Carlo. Il mattino seguente mi
chiamò nel suo ufficio, e lo trovai che cercava di fare entrare il
Tornadino virtuale nel capannone in pianta.
Arrischiò – “se lo piegate un po’ di lato,
riuscite a
farlo entrare…”.- poi si arrese, perché riconobbe che l’eventuale gru
che poteva imbragare e sollevare il Tornado, poi non sarebbe comunque
passata dal portone.
E per un po’ non si parlò più di barche, tranne
che una
mattina mi telefonò informandomi che nel pomeriggio sarebbe arrivato ad
Arese un Cigarette, e che questo era molto più “snello” e corto del
Tornado. Nel primo pomeriggio portato da un bilico
entrò nel
cortile di Arese questo missile marino, se non ricordo male un
Cigarette Top Gun, ed il nome è già tutto un programma..
Un
esemplare del Cigarette Top Gun
Un’imbarcazione tipo off-shore, con un
propulsore da oltre
1000 Hp, capace di raggiungere gli 80 nodi di velocità lunga una
dozzina di metri, bianca, con un marchio che mi riportava direttamente
ai marchi di Carlo: un bell’ovale con al centro il numero 1 dipinto in
rosso. Questo degli ovali doveva proprio essere un’ossessione. Che
inconsciamente avesse copiato un po’?
Con l’aiuto di tutti i miei colleghi accorsi a
vedere
questa meraviglia, prendemmo le misure, e con sollievo constatammo che,
seppure con qualche difficoltà, saremmo riusciti ad infilarlo nel
capannone. Come? Credo che utilizzammo le stesse tecniche usate dagli
egizi per spostare i massi ed erigere le piramidi.
Con mille e più cautele (se Carlo avesse
scoperto il più
piccolo graffio sulla carena, sarebbe successo il finimondo),
aiutandoci col famoso muletto elettrico che si dimostrò veramente
fondamentale, sollevammo leggermente la prua e a forza di braccia lo
facemmo lentissimamente scivolare su dei crick da officina, poi, sempre
adagissimamente, e con tanta pazienza lo spingemmo, sospeso sulle
precarie rotelline di questi crick nel capannone. Col muletto un po’ lo
sollevavamo a prua o a poppa a seconda delle pendenze per facilitarne
il movimento. Ricordo che si spezzò un crick e che dovemmo ricorrere al
prestito di uno da una carrozzeria vicina per completare la trentina di
metri di spostamento attraverso il cortile e all’interno del capannone.
Dopo non so più quante ore il Cigarette era
issato su due
supporti in legno che lo sostenevano in maniera aggressiva nel
centro del capannone Gialloquaranta, accompagnato dalle imprecazioni
per la fatica fatta e dalle esclamazioni di ammirazione di tutti noi,
perché la barca era veramente molto bella..
Quel pomeriggio Carlo (vigliaccamente) non si
fece vedere
ad Arese, ma era stato meglio così: se fosse venuto, si sarebbe messo a
comandare le operazioni, e, molto onestamente non so come sarebbe
finita, perché avrebbe voluto spingere, tirare, guidare il muletto,
salire sul Cigarette e provare subito l’impianto HI-FI di cui era
dotato e che doveva sparare suoni ad almeno 10.000 decibel per
superare il rumore che il motore avrebbe fatto una volta messo in moto.
Walter Milesi, il nostro validissimo mulettista
(a lui
andava almeno la metà del merito del trasporto del Cigarette senza
graffi) ebbe da Carlo l’incarico di tenerlo pulito e di caricare
periodicamente le batterie. Si prese però un gigantesco cazziatone da
Carlo perché fu sorpreso un pomeriggio sdraiato sui divani (di pelle
bianca) a fare una pennichella mentre si ascoltava un po’ di musica dal
famoso megaimpianto HI-FI.
Ma non è finita. Avere davanti agli occhi quella
meraviglia e non poterla usare, doveva essere per Carlo una sovrumana
tortura. Riuscimmo però a convincerlo che non poteva metterlo in
moto a secco. Il motore veniva raffreddato ad acqua, e l’acqua dov’era?
C’era il rischio che il motore fondesse appena messo in moto e che per
le vibrazioni e il movimento delle eliche lo scafo letteralmente
decollasse e cadesse dai supporti. Arrischiò la proposta di riempire
d’acqua un bidone per far raffreddare il motore, ma poi quando si
convinse che i 200 litri d’acqua del bidone il motore se li sarebbe
bevuti in un batter d’occhio, rinunciò.
Qualche tempo dopo con manovra inversa il
Cigarette fu
ricaricato su un bilico che lo portò (finalmente) al mare, in un porto
della Toscana.
Non ci furono, per fortuna, altre imbarcazioni
che approdarono ad Arese.
Una volta Carlo mi confidò che sarebbe stato un
suo sogno
diventare importatore per l’Italia delle imbarcazioni Cigarette. Non
escludo che fosse qualcosa a cui pensava una volta archiviate, dopo
Bentley e Rolls-Royce, Harley-Davidson e Triumph, e sono convinto che
sarebbe stato bravissimo a vendere anche quei supergiocattoli.
CARLO ED I
CONTAINER
Non ricordo in che anno avvenne, ma
fu nell’anno in cui lo stand della Numero Uno e della Numero Tre al
salone del Ciclo e Motociclo si basava su due container da 20 piedi,
uno dipinto di nero ed arancione (i colori Harley) e l’altro dipinto di
bianco ed azzurro (Triumph) con due giganteschi marchi ovali sul retro.
Un lato dei container era stato tagliato ed i
container fungevano da uffici ed hospitality.
Il nostro stand, come al solito era uno dei più
ammirati vuoi per i prodotti esposti vuoi per l’originalità della
soluzione.
Il salone era terminato ed io ero ad Arese,
mentre i
meccanici stavano riportando indietro in magazzino le moto che erano
state esposte nei giorni precedenti. Lo smontaggio della struttura
dello stand toccava invece, per fortuna, alle ditte che ne avevano
curato la realizzazione.
Verso le 17 arrivò la solita telefonata di
Carlo: “guarda
che ti ho mandato i due container, falli scaricare nel parcheggio auto”.
Dato che nella mia attività precedente alla
Numero Uno
avevo avuto spesso a che fare coi container, ne conoscevo abbastanza le
caratteristiche, dimensioni e pesi: soprattutto i pesi! “Carlo,
come li scarico?” “Come, come li scarichi? Col muletto!”
Peccato che ogni container pesasse circa 2,5
tonnellate,
ed il muletto poteva sollevare al massimo 700 Kg. Credo che sia stata
la prima volta che mi sono messo a gridare con Carlo (una volta qualche
anno prima, era stato lui a gridare con me: eravamo pari). Mentre
strillavo per l’incompetenza e la sua solita
approssimazione nel fare le cose, senza mai consultare prima chi doveva
risolvergli le grane poi, dalla finestra vidi arrivare il semirimorchio
con i due container.
L’autista aveva fretta perché doveva fare un
altro viaggio
in fiera, e si incazzò con me, perché non potevo scaricarlo. Gli
dimostrai che, se usavo il nostro muletto, questo si impennava, e non
spostava di un centimetro i due scatoloni di acciaio. Decidemmo,
dopo che mi fece telefonare al suo capo per
spiegare la situazione, che mi avrebbe lasciato il semirimorchio fino
alle 9 del giorno dopo, e disse che non gli importava un cazzo, lui
aveva bisogno del mezzo, e che se non glielo avessi fatto trovare
vuoto, ci avrebbe fatto addebitare la giornata persa.
Passai le ore successive con le pagine gialle in
mano a
contattare tutte le società di gru mobili di Milano e provincia che
riuscì a trovare. Chi era troppo distante e non poteva mandare nessun
mezzo, chi non aveva mezzi adatti, chi non rispondeva perché alle 18 la
maggior parte degli uffici chiudono, chi poteva venire, ma, solo nel
pomeriggio….finalmente verso le 20, trovai il cellulare di un
padroncino che aveva un carro gru adatto a sollevare i due container e
che poteva venire alle sette del mattino a liberare il semirimorchio.
Alle sette del giorno dopo ero in attesa di
questo carro gru, per risolvere il caso.
Arrivò puntuale e senza grandi difficoltà riuscì
a
sollevare i due container ed a depositarli nel piazzale antistante i
nostri capannoni. La prima parte della grana era risolta, il
semirimorchio poteva essere prelevato senza ulteriori
contestazioni. La seconda parte dell’operazione
consisteva nel sistemare
i due container nel parcheggio sul retro del capannone della Numero
Uno. E qui è iniziata la parte difficile.
Ogni container era lungo 6 metri, e appeso al
carro gru,
costituiva un insieme di una dozzina di metri. Lo spazio di manovra per
entrare nel posteggio non era gran che, ma con un’infinità di manovre,
facendo ruotare il container appeso alla gru, un po’ a destra e un po’
a sinistra, finalmente il padroncino riuscì ad entrare. Il cortile era
però pavimentato con degli autobloccanti inseriti su una
superficie a prato. Appena le ruote del carro gru si appoggiarono a
questa superficie, cominciarono ad affondare.
Tra carro gru e container, il tutto pesava una
decina di tonnellate.
Morale: verso le nove i due container erano
parcheggiati
in bell’ordine sotto la siepe di confine del parcheggio, ma
il cortile era sconvolto da solchi profondi almeno mezzo metro, e tutti
gli autobloccanti erano schizzati fuori dalle loro sedi. Mi
pare che la tariffa per due ore di carro gru fosse di
500 mila lire, e non ci addebitò lo spostamento, perché veniva da poco
lontano.
Quando arrivarono le auto dei miei colleghi, a
stento
riuscirono a parcheggiare perché non era facile districarsi tra i
solchi fatti dalle ruotone del carro gru. Vi lascio
immaginare la reazione di Carlo quando vide il
“suo” parcheggio ridotto aduna pista da cross o a un campo di
addestramento per carri armati, ma al peggio non c’è mai fine.
“Che cosa ne facciamo di questi container? Non
ti
conveniva rottamarli tanto al chilo, visto che sono tagliati e non
servono più a niente? Se li teniamo qui, non riusciamo neppure
più a parcheggiare le auto: occupano praticamente mezzo cortile…”
“Non ti preoccupare che li vendiamo!”
Infatti un mese dopo, mi avvisò che aveva
venduto quello
coi colori della Numero Uno a Roberto, il proprietario della Numero Uno
di Mantova. Quello viveva in campagna, ed aveva spazio per
parcheggiare una portaerei. Quando presi contatto con
Roberto, lo sentii un po’
perplesso, ma, siccome praticamente glielo aveva “imposto” Carlo, non
aveva nessuna obiezione a che gli mandassi il container.
Lo informai che doveva procurarsi una gru, o un
muletto da
container per scaricarlo dal camion che glielo portava, e a mia volta,
dovetti richiamare il carro gru per ripescare dal nostro posteggio il
container e caricarlo sul bilico (questo almeno procurato da Roberto)
che lo doveva trasportare a Mantova. Meno male che il
cortile era ancora sottosopra, perché le
ruote del carro gru, scavarono nuovi solchi, facendo nuovi danni. Altre
cinquecentomila lira ma: fuori uno!
Per il secondo container si dovette aspettare
ancora un
po’ di tempo, ma un giorno Carlo mi avvisò che il carrozziere da cui
faceva dipingere le sue auto (Interdonato), e che stava al di là della via delle
Industrie, nella zona industriale che fronteggiava la nostra, “aveva
bisogno” del nostro container per infilarci i rottami delle carrozzerie
delle auto che riparava: dovevo portarglielo al più presto.
Ci misi un pomeriggio a convincere l’omino del
carro gru a
fare lo spostamento dal nostro cortile al cortile del carrozziere. Come
faceva a viaggiare per strada con un container appeso al carro gru? La
prassi corretta sarebbe stata: il carro gru preleva il container, lo
piazza su un camion che lo portava dal carrozziere. Il carro gru
raggiungeva il camion con il container e lo scaricava nel cortile del
carrozziere. Se la polizia ci avesse sorpreso con il container per
strada, gli avrebbero tolto la licenza, sequestrato i mezzi e dato a
noi una multa colossale. Per puro scrupolo informai
Carlo, tanto per avvisarlo che
non mi prendevo tante responsabilità, e soprattutto non volevo
personalmente pagare nessuna multa, ma già sapevo la risposta di Carlo.
Nuovo sconvolgimento del cortile e a passo
d’uomo
percorremmo i duecento/trecento metri che separavano il nostro
capannone dal carrozziere. (Mi spiace non ricordarne il nome, perché
era veramente un brav’uomo). Quando ci vide arrivare,
quasi pianse. Continuava a
ripetermi che lui non lo voleva quell’affare lì, e che non sapeva dove
metterlo.
Ma come? Non era stato lui a chiederlo?
Mi giurò che lui non lo voleva, ma era stato Carlo a fargli capire che
“non avrebbe potuto fare a meno del container…” e così….. Trovammo
un buco e il nostro amico carrozziere si trovò il
modesto cortile alle spalle della sua officina praticamente tutto
occupato da quello scatolone di 6 metri per 2,5 di altezza per 2,5 di
larghezza e del peso di 2, 5 tonnellate (circa).
Qualche giorno dopo mi chiamò Carlo e mi diede
un incarico stupefacente: “Fatti pagare il container
dal carrozziere….”
“Ma come? Non glielo hai regalato? Mi ha detto che lui non
lo voleva…”
“Io non regalo un cazzo! Fattelo pagare. Gli serve per
metter via i suoi rottami…”
Per un mese tampinai quel pover’uomo per farmi
pagare
la iperbolica cifra che Carlo pretendeva. (praticamente il valore
di due container nuovi). Ogni volta mi dovevo sentir ripetere che lui
quel cazzo di container non lo voleva, e che Carlo non gli aveva detto
che lo avrebbe dovuto pagare… insomma, dopo una manfrina avvilente,
dovetti convincere Carlo che il carrozziere non glielo voleva pagare.
Carlo si infuriò, ma alla fine arrivò ad una saggia decisione…. “Allora
fattelo dare indietro!”
Credo che il carrozziere ballasse sulle mani
quando gli
comunicai che, visto che non lo voleva pagare, “ero costretto” a
prendere indietro il suo container.
La faccio breve: nuovo arrivo del carro gru, con
il
padroncino che aveva trovato la gallina dalle uova d’oro, nuovo viaggio
clandestino per strada col container appeso al gancio e ondeggiante e
nuova sistemazione nel nostro cortile con nuovi solchi catastrofici.
Carlo rinunciò a trovare nuovi clienti per quel
maledetto
container, e diede l’autorizzazione per parcheggiarvi moto e motorini;
così mi fu consentito di fare aggiustare la pavimentazione del nostro
cortile.. Si dovettero anche aggiustare i tubi del condizionamento del
capannone, schiacciati dalle passeggiate, avanti ed indietro, del carro
gru.
Il container (con i colori Triumph) fu demolito
a colpi di
fiamma ossidrica quando la Harley-Davidson acquistò la Numero Uno. Per
quest’ultima operazione si dovette ancora pagare il demolitore e chi
doveva portare via i rottami.
CARLO ED IL
PAVIMENTO DELLA NUMERO TRE DI ARESE
Quando
nel 1992 arrivammo da via Niccolini a Milano ad Arese, gli uffici del
capannone NUMERO UNO, dedicato ad Harley-Davidson erano già
magnificamente arredati (mi pare di aver già raccontato che per gli
arredi dei luoghi di lavoro dei suoi "collaboratori" Carlo non badava a
spese). Il capannone che doveva essere poi della NUMERO TRE, invece era
ancora grezzo, con le pareti degli uffici di mattoni forati a vista,
senza infissi, senza luci, senza riscaldamento, e col pavimento di
cemento non rivestito.
I lavori lì sarebbero iniziati un paio di anni più tardi, quando
l'accordo con la Triumph era consolidato, e la importazione delle moto
già avviata. Per riempirlo di moto, inoltre, bisognava svuotarlo delle
Par Car, le macchinette da Golf che Carlo aveva voluto commercializzare
con la NUMERO SETTE.
Completate dopo alcuni mesi le opere di muratura, intonacate le pareti,
sistemati gli impianti elettrici e le altre infrastrutture, si passò ai
dettagli.
Quando si trattò di scegliere come pavimentare l'ingresso, (negli
uffici al primo piano era stato messo un parquet), pensammo di
utilizzare lo stesso materiale che era stata usato per la reception
della Numero Uno: si trattava di un rivestimento plastico, assai
robusto, che arredava bene. Chiamammo il fornitore, che ci portò le
varie campionature, perchè scegliessimo con comodo.
Si trattava di quadrotti di una sessantina di centimetri di lato di
diversi colori, che poi venivano incollati al fondo ed uniti come se
fossero piastrelle.
Feci predisporre sul pavimeno del magazzino della Numero Tre le diverse
piastrelle, perchè la scelta finale (come poteva essere diversamente?)
spettava a Carlo.
Lo catturai una mattina prima che se ne andasse a Milano e lo portai a
vedere le varie combinazioni. Non ricordo tutti i colori che avevamo a
disposizione, ma Carlo ne selezionò alcuni e cominciò a fare degli
abbinamenti, circondato da tutti i ragazzi della Tre che poi su quel
pavimento ci avrebbero dovuto camminare: "prova questo con
quello....no, metti quell'altro...no, tira via che non mi
piace....prova adesso questi due...."
Dopo un quarto d'ora di questo gioco, scelse una combianzione di questi
piastrelloni bianchi ed azzurri, che richiamavano i colori bianco ed
azzurro del logo della Numero Tre e disse "facciamo una scacchiera di
questi... tu cosa ne pensi...?"
Come al solito, visto che per me (che dovevo fare l'ordine) un colore o
una combianzione di colori non faceva differenza, e anche se Carlo
avesse scelto piastrelloni color fuxia e zafferano, risposi che per me
andava bene. La cosa piaceva anche agli altri (e come poteva essere
diversamente?) e ognuno tornò al suo lavoro.
Contento per la decisione presa, Carlo uscì dal capannone, inforcò la
moto con la quale era arrivato quel giorno, e con un frastuono degno di
un cacciabombardiere che decolla, schizzò verso l'uscita del cortile e
se ne andò a Milano. Presi gli accordi col fornitore per i quantitativi
e le consegne, convocai i posatori e preparai l'ordine.
Forse lavorare per tanto tempo con Carlo, mi aveva dato una certa
sensibilità, e quando preparai l'ordine, quasi avvertendo un
presentimento, anzichè firmare io l'ordine, come facevo abitualmente,
lo portai a Carlo, con allegati dei frammenti delle piastrelle scelte
per essere sicuro che non avesse nel frattempo cambiato idea. Firmò
l'ordine lamentandosi del fatto che il pavimento, dopo due giorni dalla
scelta del materiale, non fosse ancora pronto, e mi fece notare,
ancora una volta, che "uffici così belli, in altre aziende, se li
potevano sognare..." Convenni, ricordando le migliaia di aziende che
avevo visitato nel mio lavoro precedente, e trasmisi via fax l'ordine.
In un paio di settimane la pavimentazione fu posata e si potè procedere
ad arredare gli uffici con le scrivanie che i soliti mobilieri di Cantù
avevano preparato secondo i dettami di Carlo. Si trattava di tre
amplissimi tavoli bianchi rettangolari, con il lato corto appoggiato al
muro; ogni tavolo era collegato al tavolo successivo con un raccordo
lungo il muro (il muro era foderato di sughero e su questo si potevano
fissare appunti, foto, fogli ecc.) di un mezzo metro circa di
profondità, che fungeva da supporto per appoggiare files, cestini, ed
altro.
L'altro lato era invece fatto a semicerchio: Carlo odiava gli spigoli
vivi, e tutti i suoi mobili dovevano avere profili arrotondati. Chi
lavorava su queste megascrivanie, poteva con la sua sedia munita di
rotelle, scorrere da un lato all'altro dei tavoli, avendo a
disposizione più di una postazione su cui operare.
Dopo un paio di mesi, forse anche tre, in cui praticamente ogni giorno
passava di lì, (da quando erano stati inaugurati gli uffici della
Numero Tre, Carlo era solito entrare dall'ingresso della Numero Tre, si
faceva raccontare le novità, dava le disposizioni di giornata, e poi
saliva, passando dall'amministrazione, negli uffici della Numero
Uno) mi chiamò nel suo ufficio.
"Marco, puoi raggiungermi un momento?" Dal tono della convocazione,
capì che "quella, non era giornata".
"Vieni con me! Vieni a vedere!!"
Scendemmo nella reception della Numero Tre e tra gli sguardi sbarrati
di tutti si mise a gridare: "Chi cazzo ha fatto mettere questa merda di
pavimento?....entro domani esigo che sia tolto perchè non lo voglio più
vedere: fa schifo!".
In effetti, il pavimento faceva un po' schifo, perchè i quadrotti
bianchi, a furia di camminarci sopra, erano diventati un po' "color
isabella", e non bastava che Gilberto - "Pedro" per Carlo -, (il nostro
simpatico peruviano addetto alle pulizie) ci passasse sopra lo straccio
umido.
Tornò nel suo ufficio, e io rimasi con i ragazzi della Tre, che non si
erano ancora ripresi dalla sorpresa, e che cominciavano a ridere,
chiedendomi se dovevano sloggiare subito o potevano aspettare, in
attesa di rivoltare il pavimento.
Risalito nel mio ufficio, andai a ripescare l'ordine e mi recai
nell'ufficio di Carlo, mettendoglielo sulla scrivania: "Carlo, l'ordine
per quella merda di pavimento, l'hai firmato tu! Se vuoi io lo faccio
togliere, ma ci vorrà almeno un mese per cambiarlo, e devo far smontare
tutte le scrivanie e tutti gli arredi. Guarda qui."
Prese l'ordine, lo lesse, lo rilesse: guardò i campioncini di
piastrella allegati, me lo restituì e guardando ad occhi bassi uno dei
suoi promemoria 8x8 cavato da una mazzetta tenuta insieme da una
pinzetta mormorò: "Con tutto quello che ho da fare , non mi posso mica
ricordare di tutto.... "
"Allora che cosa facciamo? Vuoi scegliere un altro pavimento? Se me lo
dici subito, provvedo."
"No... fai pulire meglio: quello...fa schifo...."
Entro una settimana Gilberto fu dotato di una apposita macchina per
lavare quel tipo di pavimento. Gilberto non la usava volentieri, perché
ogni volta che l'azionava, volava via (o lui o la lavapavimenti)
ma, adagio adagio il color isabella scomparve, e tutto tornò
tranquillo.
Che farci? Carlo era fatto così.
Mi pare che quei quadrotti bianchi (un po' meno bianchi) ed azzurri (un
po'meno azzurri) ci siano ancora.
Non so chi usa quella diabolica lavapavimenti.
CARLO ED IL
VIAGGIO IN SIDECAR ALLA NUMERO UNO FIRENZE (1995)
Questo non è racconto vero e proprio, ma
una e-mail di Marco che riporto integralmente:
Illustrissimo, ho visto il
video, girato nel magazzino di Arese, sul sidecar con il quale CT fece
un viaggio pazzesco con Mauro Borella, per andare a Firenze. Insieme
c'eravamo noi della Numero Uno su un pulmino ducato (che in parte
guidai anche io, dando il cambio agli altri) e con il camion della
Numero Uno carico di moto ed accessori. Dicevo: destinazione Firenze!
Tutti per andare a vedere in anteprima il negozio della Numero Uno
Firenze, che sarebbe stato aperto poco dopo.
Di quel vaggio conservo una
foto (che ti allego), che è sfocata, perchè probabilmente chi la scattò
la mise a fuoco con la mia olimpus, ma con le sue diottrie sbagliate.
C'erano anche alcuni della Numero Uno Roma, invitati per festeggiare
l'evento, e per familiarizzare con noi di Milano.
Il viaggio fu
pazzesco, perchè, immagina, Carlo che guida il sidecar sull'Appennino
facendo lo slalom tra i camion, con Borrella dentro il sidecar che fa
il matto per i peli nei sorpassi. Tra l'altro devono aver preso un
mucchio di freddo, perchè, doveva essere appena primavera, CT aveva una
giacca a vento sul giubbino Numero Uno, un golf, i jeans e le solite
superga senza calze. Borrella una giacca a vento su una giacca
fighettosa e basta.
Noi da Cantagallo a
Firenze ad inseguire col pulmino e il camion della NU sopercarico
(almeno 6 Harley) con Alberto alla guida di fianco e tutti noi
dal pulmino sporti dai finestrini a far casino e a stringere le mani ai
meccanici sul camion. Dietro Eligio col Mercedes bianco della NU a
portare anche lui (supercarico) moto ed accessori.
Dopo la visita al negozio
(ancora vuoto, come si vede) e una "predica" di Carlo sui programmi di
sviluppo futuri, tutti a cena. Qualcuno, non faccio i nomi, ma era una
ragazza, si prese una ciucca pazzesca, e credo che vomitò, al casello
di Firenze, al ritorno, oltre al vino e alla cena, anche l'anima.
Della foto non ricordo tutti, ma, a partire da dx:
il primo in piedi ? il secondo
che guarda CT con giacca di pelle ? il terzo sono io, il quarto vicino
a me è Mauro Borrella, poi c'è Alberto Poggi, poi Giovanni Zanella (il
consigliori per Firenze di CT, scomparso nel 2001) poi Eligio e
Maurizio Meroni. Quello coi pantaloni arancioni è Lamberto.
Dietro ci son tre di coi non
ricordo i nomi (quello più alto mi sembra Max Brun, ma non ricordo che
ci fosse). In ginocchio da sin. ci sono 4 che non riconosco, poi Carlo
col casco, e sotto di lui Toto, meccanico di Milano, poi Elena
Meneghetti, Livia Diegoli e sopra di loro Alfonso, il maestro dei
meccanici di Roma (anche lui, purtroppo scomparso per un tumore).
Nell'angolino a dx in basso si
vede un pezzo della moto (col sidecar) di Carlo.