MOTO E MITI
Il mondo
delle due
ruote è ricco di miti più o meno fondati: fatta
eccezione
per i veri
"cancelli", ovvero quei modelli che si sono guadagnati meritatamente
una pessima reputazione, anche molte delle moto che negli anni sessanta
vantavano eccellenti prestazioni, giudicate in base ai parametri
attuali risulterebbero impietosamente obsolete. Su un percorso appena
veloce, la maggior parte di esse non terrebbe il passo di una moderna
sport tourer guidata senza troppo impegno. Nel ristretto gruppo di
"classiche" che invece da un simile confronto non uscirebbero
sconfitte, uno dei primi posti spetta di diritto alla Triton,
grazie
alle eccezionali prestazioni garantite dal telaio Featherbed.
Per
comprendere il valore di
questa special, inglese quanto il Tamigi e il rito del the
pomeridiano, ripercorriamo la nascita e l'evoluzione della regina delle
cafe racer. Nel 1949, a Belfast, Rex McCandless realizza un telaio
destinato a sostituire sulla Norton monoalbero 500 l' ormai superato
"Garden Gate". Il tecnico irlandese, coadiuvato da Oliver Nelson, crea
una struttura in tubi Reynolds 531 di acciaio al manganese-molibdeno.
La tecnica utilizzata fino a quel momento era basata sull' innesto dei
tubi in congiunzioni di acciaio forgiato mediante brasatura a ottone.
McCandless si avvale invece della saldo-brasatura di derivazione
aeronautica denominata SIF-Bronze, che consente la giunzione testa a
testa dei tubi. Questa particolarità e l'eccellente
"riempimento", con
un ampio raggio di raccordo tra i vari elementi grazie alla bassa
temperatura di fusione del materiale di apporto, permette di assemblare
un telaio che abbina una notevole resistenza alla leggerezza. La
rigidità viene inoltre incrementata dall'innovativo
intreccio
dei tubi
nella zona del cannotto di sterzo. Nel nuovo telaio i due verticali
scendono a creare la doppia culla e risalgono dietro al
complesso
motore-cambio, per poi tornare al cannotto di sterzo senza
interruzioni. Le prove comparative all'isola di Man danno risultati
incoraggianti, confermati al TT dal trionfo di Duke e Bell,
che
polverizzano i primati sul giro nelle classi 350 e 500, posando una
pietra miliare nell'evoluzione dei telai motociclistici.
In una Triton
tutto è
classico e minimalista, a partire dal leggerissimo serbatoio Manx in
alluminio battuto a mano.
Persino il tubo che supporta la
levetta
dello starter contribuisce a irrigidire l'esile piastra
superiore
della forcella.
Il contagiri Smiths meccanico è montato su una
staffa
Converta.
Allungati sul serbatoio potete vedere la vostra
immagine riflessa
nell'alluminio lucidato a specchio o crogiolarvi alla vista del delizioso tappo Enots "Monza".
La
maneggevolezza
del Featherbed fortunatamente perdona anche qualche distrazione.
GENESI DELLA SUPERBIKE
DEGLI ANNI 60
La
stabilità, e
il comfort
assicurati al pilota dall'abbinamento tra il nuovo telaio e la forcella
"Roadholder", inducono un altro famoso pilota inglese, Harold Daniell,
a coniare la definizione "featherbed", ovverosia "Letto di piume".
Grazie ad esso le monocilindriche tornano competitive nel campionato
mondiale, battendo in più di una occasione le più
potenti
quattro
cilindri Gilera e MV, penalizzate da ciclistiche sottodimensionate
rispetto al propulsore. Nel '51 la produzione del "Featherbed" viene
trasferita dall'officina di Bracebridge Street, a Birmingham,
direttamente alla Reynolds. All'inizio il nuovo telaio è
destinato
esclusivamente ai modelli da competizione, ma l'anno successivo, con la
Dominator 88 De Luxe, viene utilizzato anche sui modelli stradali nella
meno costosa versione con i tubi di acciaio al carbonio, che
smetterà
di equipaggiare nel '67 la produzione Norton, con la presentazione
della nuova Commando. Nel 1960 era stata introdotta anche una versione
con una larghezza ridotta, la "slimline", che pur offrendo le
medesime
prestazioni viene da alcuni ritenuta inferiore rispetto all'originale
"wideline", che resterà sempre esclusiva del Manx 500 GP.
Solo alla
fine
degli
anni
sessanta, l'arrivo del Commando segna il tramonto dal punto di vista
produttivo del "letto di piume", ma contribuisce a consolidarne la
fama. Fama che, almeno in questo caso, è talmente meritata
da
durare
fino ad oggi. Non è un caso, infatti, che proprio in quegli
anni
le
"cafe racer", ovvero le special assemblate abbinando il meglio della
produzione motociclistica inglese, stiano vivendo il proprio periodo
d'oro. Alla ricerca del massimo delle prestazioni, i "rockers"
mischiano motori, telai, sospensioni e freni di varia provenienza.
Nascono così pittoreschi "ibridi" tra componenti Triumph,
BSA,
Norton,
Matchless, Ariel, AJS, Royal Enfield, HRD-Vincent, Velocette e
così
via. Durante la settimana, nei cortili e nelle officine fervono i
lavori sulle special che la domenica infiammeranno le sfide sui
circuiti improvvisati intorno ai pub, da cui la colorita definizione di
"cafe racer". La paternità di questo termine è
incerta:
da molti viene
attribuita a Paul Dunstall, un preparatore che ne fu il principale
protagonista dal punto di vista commerciale. Ancora più
difficile è
risalire a chi abbia avuto per primo l'idea di installare il leggero e
performante bicilindrico Triumph nella culla del Featherbed", dando
vita alla leggendaria Triton. Il merito dal punto di vista prettamente
storico viene generalmente riconosciuto a un certo Doug Clark, ma
quello di aver dato un'impostazione rigorosa all'evoluzione della
Triton, e con essa all'intero movimento delle cafe racer, spetta al
rubizzo londinese Dave Degens.
I CANONI
DELLA
CAFE RACER
A onor del
vero,
delle
famigerate sfide cittadine che ogni domenica lasciavano sull'asfalto
diverse vittime, oggi Degens ricorda di averne disputate pochine,
impegnato com'era a tirar fuori un po' di potenza da un' asmatica
Matchless 350 ex-militare. I destini di Dave e della Triton si
incrociano quando l'ennesimo fuorigiri piega una valvola del Matchless.
La moto e il suo incredulo proprietario vengono trainati a casa a oltre
cento chilometri all'ora da un certo Johnny Grey, in sella ad una
Triumph T110 con telaio Manx. Riflettendo sull'accaduto, Dave decide di
impostare in modo meno artigianale la propria attività di
elaboratore.
Rileva l' officina di un rivenditore di scooter chiamato Dresda Autos,
del quale conserva la denominazione, e con grandi sacrifici si procura
un tornio e una fresa. Nel 1960 Degens propone la sua interpretazione
della Triton: è una moto essenziale e terribilmente efficace
nella
tenuta di strada e, cosa ancora più incredibile,
fondamentalmente
identica a quelle che Dave realizza tuttora nella sua caratteristica
officina, con immutata passione da quasi mezzo secolo. Due
anni
dopo,
Degens abbina alla costruzione di moto complete la produzione di telai
featherbed, piastre motore, scarichi, freni e tutto quel che serve per
assemblare una special: dettando in pratica i canoni di purezza della
cafe racer. Contemporaneamente all'attività di
"tuner",
dal '59 Dave
inizia la sua avventura come pilota, culminata nel '70 con il primo
posto alla 24 Horas de Barcelona, in coppia con l'amico Ian Goddard,
chiaramente alla guida di una Dresda con motore Triumph e telaio Manx.
DAL SUSSEX
ALLA
VALCAMONICA
La moto che
vedete
in
queste
pagine, ricostruita dai ragazzi della Classic Farm Motorcycles di Breno
(BS) nasce da un lavoro iniziato nel Sussex da J.C. Buckett,
per
conto
di un certo Paul Mitchell, ed è stata assemblata utilizzando
esclusivamente componenti d'epoca. La prima immatricolazione
è
avvenuta
in una località storica per una cafe racer, ovverosia
Brighton,
teatro
di accesi scontri, non solo a sfondo motociclistico, tra rockers e
mods. Grazie all' accurato lavoro svolto dall'officina
bresciana,
nonostante il cospicuo incremento prestazionale essa è
tuttora
conforme
ai canoni della "golden era" delle cafe racer. Il telaio wideline del
1959 è abbinato alla canonica forcella Norton
"Short"
Roadholder con
molle a vista. Il motore è un classico T110 Pre-Unit
del
'61 e, come
spesso accadeva all'epoca, sul basamento della più
tranquilla
Thunderbird è stato trapiantato il gruppo termico della
Bonneville, per
poter montare due carburatori. La trasmissione primaria rimane affidata
alla tradizionale catena Renold, preferita per motivi di
originalità
alla più pratica cinghia in gomma, diffusamente impiegata
nelle
gare
storiche. Rigorosamente originali anche la sella, il parafango con i
caratteristici attacchi e il leggerissimo serbatoio in alluminio da
cinque galloni, fissato dalla fascia cromata tipica delle
moto da
competizione degli anni cinquanta. Anche le piastre che vincolano il
motore e la scatola del cambio separato al telaio sono quelle "giuste",
ricavate dal pieno in lega di alluminio da cinque sedicesimi di
pollice, pari a circa otto millimetri. A dispetto dello spessore
apparentemente esiguo, sopportano le notevoli sollecitazioni impresse
dal tiro della primaria, la cui regolazione avviene mediante dei
semplicissimi supporti asolati muniti di registri. Prerogativa della
vera Triton è infatti l'assoluta essenzialità:
c'è
esattamente quel che
serve per andar forte e frenare a sufficienza e non una vite di
più, e
questo la dice lunga sull'esperienza accumulata da chi ha pensato
questa motocicletta. Di rigore, sul ponte di comando i corti
semimanubri "clip-on", le manopole Doherty e l'irrinunciabile contagiri
Smiths con supporto in alluminio della Converta.
Fabrizio
ha
iniziato l'assemblaggio della Triton nella storica, vecchia officina
della CFM e il lavoro si è
concluso dopo il trasferimento nella nuova sede
Per
il freno
anteriore
è stata
utilizzata una delle più efficaci unità
disponibili nei
primi anni
settanta: il doppia camma da otto pollici delle Yamaha TD da gran
premio. Questa apparente contaminazione, tutt'altro che insolita
all'epoca, non deve scandalizzare: per ovviare alla nota pigrizia dei
freni nazionali, i rockers non andavano per il sottile, ricorrendo
anche agli italiani Grimeca, Ceriani e Fontana, oggi quasi inflazionati
sulle repliche, erano invece poco utilizzati per via dell'elevato
costo. Unica concessione alla modernità è stata
l'accensione Lucas
Rita, un must se si vogliono evitare le tribolazioni dell'impianto
originale.
L'avventura
italiana di
questa
moto inizia nel '94: dopo una revisione effettuata dallo specialista
britannico Joe Dumphy, viene acquistata da un collezionista che riesce
a superare le pastoie burocratiche della nostra Motorizzazione, per poi
cederla nel 2002 a un suo concittadino, pure lui appassionato di moto
inglesi. Per diverso tempo la manutenzione è affidata alle
abili
mani
di un meccanico torinese. Quando però il proprietario si
trasferisce in
un'altra città, inizia la difficoltà a trovare
qualcuno
che possieda la
competenza, e soprattutto la pazienza, necessarie per accudire una
paziente bizzosa e sofisticata come si addice a una regina. Nonostante
le robuste parcelle, la visita a un paio di "santoni" delle inglesi non
ridona alla moto l'originaria efficienza. Il proprietario si rivolge
allora direttamente a Degens, che gli propone la trasformazione della
Nourish Racing engines a quattro valvole per cilindro. Il kit della NRO
di Langham, nel Leicestershire, deriva dalla trasformazione Weslake,
progettata da R. Valentine a metà degli anni sessanta per
ottenere dal
motore Triumph T120 la potenza richiesta dai clienti USA. In base al
motto "Biker's work is never done" la moto viene frettolosamente
smontata e parte del motore spedito alla Dresda Garage.
Dall'Inghilterra dopo qualche mese arriva la sospirata trasformazione a
otto valvole, ma dovrà passare ancora parecchio tempo, e un
ulteriore
cambio di officina, perché il vitaminizzato Pre-Unit torni
ad
alloggiare nel suo "letto di piume". La generosa iniezione di
cavalli,
ottenuta grazie anche all' incremento della cilindrata, rende infatti
necessaria la realizzazione di un attacco artigianale tra la testa e il
telaio, per evitare movimenti del motore indotti dal tiro catena.
Il
fissaggio
della
testa
al
telaio costruito nell'officina bresciana, invece di una saldatura
utilizza due collarini nella parte
anteriore, per assecondare il lieve
"movimento" verticale del gruppo termico causato dalla dilatazione. In
caso
contrario, le vibrazioni potrebbero compromettere la tenuta della
guarnizione o addirittura l'integrità del telaio stesso.
In
compenso, questa modifica e l'accurato bilanciamento effettuato da
Degens, riducono drasticamente le vibrazioni che affliggevano il motore
originale. Esaminando il contenuto delle decine di cassette e scatole
nelle quali la moto è stata portata alla Classic Farm, si
scopre
che
dopo quasi tre anni di attesa diversi pezzi sono andati perduti. Il
cambio richiede una revisione e le bronzine vanno realizzate
appositamente al tornio. La campana della frizione presenta delle
cricche nei punti più stressati e viene pertanto sostituita
con
una
nuova. Secondo una prassi diffusa all'epoca, anche questa viene
modificata con l'impiego di pezzi provenienti da diverse serie di
motori Triumph, per garantire il corretto allineamento della
trasmissione. Il circuito dell'olio, con il serbatoio separato posto
sotto la sella, si avvale ora della pompa maggiorata e dei
condotti
supplementari esterni previsti dalla NRE.
Per ovviare alla diversa
conformazione dei collettori di aspirazione della testa Nourish,
nell'officina bresciana vengono realizzati dal pieno anche
due
raccordi in alluminio con i carburatori montati elasticamente. Oltre a
diminuire la trasmissione di calore, cui gli anziani Amal in zama
risultano molto sensibili, questa modifica evita l'emulsionamento della
benzina nelle vaschette, rendendo più regolare il
funzionamento.
L'allungamento dei condotti di aspirazione contribuisce inoltre a
irrobustire il tiro, in vista dell'impiego stradale di un motore
originariamente destinato alla pista. Il nuovo posizionamento dei
carburatori costringe a modificare la posizione del serbatoio
carburante. Anche la curvatura degli scarichi in prossimità
delle teste
deve essere rivista, ma con un po' di impegno si riesce a non alterare
l'originalità dei tipici sweptback a sezione costante, che
il
proprietario vuole lasciare rigorosamente liberi.
Dopo
diversi mesi
di
lavoro, Fabrizio riesce a far rinascere la Triton. Fin dai primi
scoppi
secchi e scanditi, l'emozione è enorme per tutti. Grazie al
peso
vicino
ai centoquaranta chili, le prestazioni non fanno rimpiangere una moto
moderna. La maneggevolezza degna di una 125 e lo spunto
vigoroso
a
dispetto dei rapporti lunghi rendono un'esperienza esaltante la guida
sui percorsi misti. Dato il considerevole incremento del rapporto di
compressione, anche una volta sostituito il pedale con quello
più lungo
del Trident l'avviamento richiede una certa cautela. Abitando
in
montagna questo però è un inconveniente
sopportabile, in
cambio del
piacere di guidare un autentico pezzo di storia del motociclismo.
Il freno
proveniente da una GP giapponese e la superba forcella Norton
Roadholder, la cui idraulica non sfigurerebbe
anche
oggi, consentono a
una moto da 140 chili staccate notevoli per un mezzo del '59.
Nello showroom
della CFM di Breno
(BS) la Triton durante una delle visite di controllo al
cambio
è
in
buona compagnia, Laverda 750 SFC, BMW, Ducati, Motobi, ecc.
Allungati sul
serbatoio potete vedere la vostra immagine
riflessa
nell'alluminio lucidato a specchio o crogiolarvi alla vista
del
delizioso
tappo Enots "Monza". La maneggevolezza del Featherbed fortunatamente
perdona anche qualche distrazione.
Un ringraziamento a
Visitate il nuovo
sito di CFM :
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