Trident 1968

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TRIUMPH TRIDENT -  NEL SEGNO DEL TRIDENTE
parole di Muz, foto di Max Trono (tratte da Cafe Racer, 2002)

Grazie a Muz che mi ha inviato il materiale qui sotto riportato.




Mentre il pericolo giallo era già diventato realtà, Triumph gioca il tutto per tutto con la carta del prestigio e della prestazione pura. Cala un asso a tre cilindri, la Trident T150. Una maximoto che non ti aspetti, innovativa, ma giunta fatalmente in ritardo. La sua veloce stagione rivive oggi nei moderni Triples e in questo splendido esemplare di derivata di serie, realizzato dallo specialista milanese Giuseppe Pettinari.

        



Formidabile, quell’anno. Il 1968 era destinato a rimanere nella storia per più di un motivo. La contestazione e i moti del maggio parigino, “Axis: Bold As Love” di Jimi Hendrix, “2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick. Le arti figurative, la musica, il cinema, i costumi sessuali e la lunghezza dei capelli dei giovani... Tutto stava cambiando con una velocità mai vista prima. Anche le motociclette. Nella stagione in cui gli studenti cominciavano l’assalto al cielo, le moto che andavano fortissimo si contavano sulle dita di una mano. Le chiamavano maximoto, o supermoto, per la loro cilindrata e le prestazioni mai viste, una moda inaugurata dalla Honda CB 750 Four. E segnarono la loro epoca con un’intensità che le giovani generazioni non potrebbero immaginare. In quel fatidico ‘68 a due ruote, vennero presentate in rapida successionela  Norton Commando 750 e la Kawasaki 500. E Triumph? La Casa inglese si era cullata sugli allori del mercato americano e inglese, lasciandosi cogliere impreparata. Anche se la minaccia Honda si era profilata sul Sol Levante già dai primi anni 60, Triumph calò il suo asso soltanto un mese prima della presentazione ufficiale della CB 750. In una bella giornata invernale, il direttore generale Bert Hopwood si presentò alla stampa specializzata fra la Trident 750 e la BSA Rocket 3, due triples praticamente gemelle.


VELOCE CHE È TARDI

La novità arrivò in ritardo clamoroso, dato che a Meriden si lavorava sul progetto di una moto ad alto tasso prestazionale già dal 1964. Hopwood e il mitico ingegnere capo Doug Hele avevano deciso di aggiungere un cilindro al twin valvole in testa da 500 cc e calarlo nel classico telaio Bonneville. In questo modo, si sarebbe ottenuta una potente settemmezzo senza un eccessivo sforzo di ricerca e sviluppo. La scelta dei tre cilindri in linea, destinati a diventare un marchio di fabbrica Triumph da quel momento ai giorni nostri, era legata anche a succosi argomenti di marketing. Sulla spinta della popolarità del mondo dei Grand Prix, dove guardacaso spopolava un’altra 3 cilindri, la MV Agusta 500 di Giacomo Agostini, i ragazzi erano affamati di chilometri orari. La differenza della Trident sul “vertical twin” di casa era abissale: nei test ufficiali fu la prima maxi a toccare i 200 chilometri orari. Nei confronti delle jap era segnata invece dalla ciclistica di maggior pregio. La Trident risultava di fatto più leggera sia delle altre grosse bicilindriche italiane (Guzzi V7 e Laverda SF), sia delle frazionate giapponesi. La ridotta sezione frontale rispetto alla Honda 750 ne favoriva la penetrazione aerodinamica. Le potenzialità del triple parvero subito enormi ed essendo la moto a carter secco, con il serbatoio dell'olio separato, i tecnici inglesi riuscirono a donare alla Trident un baricentro basso. Sull’altare dell’assoluta guidabilità, però, in fase di progettazione fu sacrificata la distribuzione a doppio albero a camme in testa. Già sperimentata su alcuni prototipi, avrebbe comportato l’innalzamento del baricentro invalidando la rinuncia al carter umido. La Trident manteneva una certa aria di famiglia con la Bonneville, di cui manteneva lo schema dello chassis a culla semplice (doppia culla per la Rocket 3 BSA, a cilindri inclinati in avanti) e lo styling convenzionale, specie dopo il 1972. La Trident vendette molto di più e più a lungo della Rocket 3, con 45.000 esemplari. E questo nonostante il motore avesse bisogno di una manutenzione frequente. Per fortuna, l’imbiellaggio era sufficientemente forte per spazzare via il fatidico “ton”.





BORN TO RUN

Se la Trident era già il massimo da parcheggiare davanti al bar, le versioni corsaiole dimostravano nei fatti che si trattava di un oggetto particolare e molto, molto veloce...  In Italia la stagione agonistica della Trident venne esaltata dalla passione dello storico importatore Bepi Koelliker, con i piloti come il tre volte iridato Walter Villa e i “gentleman rider” Giovanni Provenzano, Vanni Blegi e Renato Galtrucco. A preparare le moto erano stati chiamati i fratelli Pettinari. Proprio uno di loro, Giuseppe, ha realizzato la Trident “derivata di serie” presentata su Fedrotriple. Si notano i possenti freni Fontana da 250 mm replicati da Menani, a doppia camma e quattro ganasce. L’artigiano milanese Daniele Fontana li montava personalmente in lega di magnesio, prima dell'avvento del doppio disco anteriore Lockheed nel ‘73. Può sembrare incredibile ma le Trident come questa, cioè ancora con il telaio stock, piegavano fino a strisciare i tubi e bucando il carter motore! E  non si parlava certo di slick e saponette: bastavano i pantaloni di pelle e i famosi pneumatici K70 e K 81 della Dunlop, su cerchi da 19 pollici...


               


               


La Trident di Pettinari è di quelle nate per la pista: alesaggio e corsa 67 x 70, pistoni speciali Hepolite stampati ad alta compressione 11:1 (1 grado in meno di quelle che correvano a Daytona), cilindrata totale 740 cc. Le testate sono state lavorate per migliorare i flussi, mentre il cilindro è in alluminio con le canne riportate in acciaio. In acciaio pure le bielle Carrillo, bilanciate dinamicamente sull’albero motore. A monte, tre carburatori Amal Concentric originali da 26 mm con cornetti liberi, a comando unico. Un passaggio praticamente obbligato l’accensione elettronica Boyer Brandsen, preferita alla Lucas-Rita probabilmente per una diversa mappatura. Mezzi manubri, comandi a mano e pedane arretrate sono chicche del magazzino di Menani Racing Parts. La frizione in alluminio è stata realizzata artigianalmente da Pettinari, con cambio seconda serie unit a 5 marce che riesce a “tirare” un rapporto pignone-corona 18/49 denti: praticamente il sogno di tutti i piloti da café! I cerchi sono Akront a raggi con il canale rinforzato; il serbatoio è l’originale prima serie “a fetta di pane”, disegnato dall’agenzia di design inglese Ogle (fra le più gettonate nella Swingin’ London).









In questo caso, sono stati eliminati il caratteristico fregio cromato a sbalzo e le guance in gomma. La coppia di scarichi Ray Gun (pistola a raggi) a tripla uscita è stata rimpiazzata da un 3 in 1 sparato verso il cielo, per evitare grattate in piega. I terminali sono sempre a sogliola, ma con luce di scarico singola rettangolare e impreziositi dai collettori trattati con vernice ceramica bianca. Il risultato è questa street racer che materializza il sogno proibito di tutti i piloti e i bulli da bar,quelli con il capello lungo e le basette sproporzionate, che nei primi anni 70 si davano appuntamento sui vialoni di periferia per sfidarsi. E una vera e propria istigazione per tutti coloro che conservano una Trident sotto il telo, addormentata in un angolo del garage.








3 PER TRIPLE - Storia del primo triple Triumph

Il primo motore a 3 cilindri fu disegnato dai progettisti Bert Hopwood, Doug Hele e Jack Wicks cominciò a girare sul banco del reparto sperimentazione di Meriden nel 1965. Ma occorse aspettare ben tre anni perché la Trident entrò in catena di montaggio nella fabbrica BSA di Small Heath (accorpata alla Triumph nella NVT, Norton Villiers Triumph). Le modifiche e il ritardo accumulato alla fine le risultarono fatali quanto la scarsa qualità costruttiva, i trafilaggi d’olio e l’inefficienza dell’impianto elettrico. Cose impensabili, per una moto ad alte prestazioni. Prodotta fino al 1975, la Trident venne realizzata in tre serie. La prima fu denominata T150 – come sempre il numero indicava, con eccesso di ottimismo, la velocità massima in miglia orarie. Montava il cambio a quattro marce e il freno anteriore a tamburo, secondo le consuetudini tecniche degli anni Sessanta che avevano fatto la fortuna della Bonneville. Il colore era azzurro acquamarina, con fianchetti e telaio nero.






1969 - T150 prima serie
 
Nel 1971 arrivò la prima tornata di aggiornamenti: freni a tamburo conici, forcella a steli scoperti e modifiche alla carrozzeria, in tinta nera. Le Trident costruite per il mercato USA sfoggiavano il serbatoio della Bonneville, al posto del “fetta di pane” che aveva scandalizzato i motociclisti americani. Nel ‘72 arrivò il cambio a 5 marce ispirato al Quaife da competizione, l’anno successivo la T150V con il freno anteriore a disco da 10”. Dopo il blocco della produzione per gran parte del 1974, nel ‘75 il triple di Hinckley assunse la forma definitiva nella sigla T160. Il motore 3 cilindri era inclinato in avanti come sulle BSA Rocket 3. Lo scarico era un curioso 4 in 1 in 2 (il cilindro centrale usciva 2 collettori), con finale cilindrico tipo Norton Commando 850. Finalmente l’avviamento elettrico affiancò il kickstart; il telaio venne modificato e fu aggiunto il freno a disco posteriore. La carrozzeria con serbatoio tradizionale era di gusto più americano. Da notare che lo stesso tricilindrico costruito a Small Heath con cambio a 5 marce equipaggiò la futuristica X75 Hurricane, una “crossover” ante-litteram fra sportiva, custom e flat-tracker espressamente per il potente mercatto USA. Serbatoio in vetroresina, triplo megafone e manubrio alto, fu disegnata da Craig Vetter e prodotta nel solo 1973. I pochi esemplari esistenti hanno valutazioni da capogiro e sono ricercatissimi dagli appassionati. La stagione sportiva del triple Triumph/BSA fu breve ma densa di soddisfazioni, nonostante la concorrenza impari della Honda 750 Four, delle Yamaha 2 tempi e delle maximoto italiane nelle gare per derivate di serie. Fra i successi più  prestigiosi, cinque Production e il F750 TT all’Isola di Man, il Bol d’Or con la celebre Slippery Sam guidata da Ray Pickrell. Quindi una vittoria (con Dick Mann) e un secondo posto nella 200 miglia di Daytona. Le racer potevano vantare fuoriclasse come Mike Hailwood, Gene Romero, Paul Smart, Dave Aldana, Gary Nixon; e Percy Tait, l’inossidabile collaudatore Triumph. Fra le altre modifiche, avevano un telaio più “chiuso” e leggero che all'epoca era chiamato "deltabox" (Yamaha non ha inventato proprio nulla, pare…) e più tardi “Rob North”, dal nome del suo costruttore.


        




Trident T160








INTERVISTA A GIANFRANCO BONERA -  IL SOGNO DI BONERA


          

Il pilota monzese Gianfranco Bonera è stato uno dei talenti più vivaci del motociclismo italiano dei primi anni Settanta. È noto soprattutto per aver corso a fianco di Giacomo Agostini, Phil Read e Alberto Pagani sulla MV Agusta 500. Oggi non ha lasciato i cordoli e si diverte nel Gruppo 5 e nelle rievocazioni storiche a fare il buco con la Trident. Quello con il triple inglese è un amore antico. Basta premere lo “start” dei ricordi e Bonera parte deciso.
“Quando uscì, la Trident ebbe un impatto sensazionale. Era stupenda, affascinava, perfino il rumore era inconfondibile. Purtroppo potevano permettersela solo i fighetta, i figli di papà con i soldi, che non necessariamente erano anche grandi appassionati. Se per loro la Trident era un bell’oggetto, come poteva esserlo un Rolex o una spider, per noi motociclisti del popolo era un sogno inarrivabile, da sbavare a vederla passare”.
 
Quando ebbe l’occasione di pilotare una Trident?
“Di solito correvo con gli amici a Monza e durante un test fui notato da Bepi Koelliker, l’importatore Triumph italiano. Da vero appassionato, aveva creato un reparto corse ufficiale sulla scia di quello della Casa madre. Si correva nelle gare di durata, allora molto popolari, riservate alle derivate di serie. Sono tornato sulla Trident cinque anni fa nelle gare classic, tipo Gruppo 5. Mi sono trovato benissimo, tanto che ho vinto parecchie di quelle che ho corso”.

Utilizzava le Trident da corsa anche per qualche giretto su strada?
“No, io avevo un Guzzi V7 Sport. Ma nella mia compagnia di Monza le Trident non mancavano. La sera si andava sul viale Suzzani, verso Milano, per una bella sparata insieme, o a sfidare la compagnia delle Kawasaki. Non è che facessimo gare vere e proprie, perché era una gara unica: io, il Tino e il Vittorio Brambilla, con gli altri del gruppo, appena la strada si faceva tortuosa era automatico. Si cominciava con un sorpasso e si scatenava la corsa: partivamo in sette/otto e arrivavamo i soliti due o tre, i più veloci”.

Si sentirebbe di consigliare una Trident per l’utilizzo quotidiano?
“Sono passati trent’anni e la tecnica ha fatto passi da gigante. Il cambio è lento, perfino il Quaife che usavamo nelle competizioni, la frizione dura. Se allora la Trident era il top, adesso potrebbe sembrare un legno. Il motore è sempre stupendo, generoso, ma la moto è impegnativa da guidare”.

E se per caso gliene capitasse una sottomano?
“L’unica è renderla più elastica, più morbida. Quindi subito un bel Quaife a 5 rapporti e la primaria a cinghia, al motore basta una lucidata ai condotti della testata. Poi sostituirei le puntine con un’accensione elettronica, magari la Boyer. Per i freni consiglio i Fontana replica, perché quelli a tamburo originali ve li raccomando... In Inghilterra rifanno praticamente di tutto, fuorché i carter, le fusioni: sono merce sempre più rara e sempre più cara”.










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